Nuvolari, quel giorno d’agosto
Tazio Nuvolari è una scia di polvere, una di quelle che non vedremo mai nelle corse moderne, che la maggior parte di noi può soltanto immaginare, pensandola al tempo stesso inimmaginabile.
Alberi ai lati, a volte muretti, vie di fuga inesistenti. Più che piste, strade: a volte sterrate, proiettili di brecciolino contro gli spettatori più vicini. Il primo ponte verso il futuro, le strade: un tramite, tra luoghi separati da distanze che sembrano incolmabili, in un’Italia tortuosa, fatta quasi soltanto di provincie, negli anni tra le due guerre mondiali.
L’automobile, simbolo per eccellenza dell’avvenire; genere di lusso, eppure inquilina privilegiata dell’immaginario popolare. E l’auto da corsa come quintessenza di un’idea, di una società di là da venire. Già protagonista di un’ode di Marinetti, che nei suoi tubi di scarico ebbe la visione di serpenti dall’alito esplosivo.
Il suono del motore improvvisamente sembrava incrinare, per poi mandarlo in frantumi, un ritmo intrecciato nei secoli, scandito da zoccoli e pedali.
Un mantovano esile, scheletrico anche nel sorriso ostentato, gli stava aggrappato, direttore d’orchestra il cui cuore batteva all’unisono con i pistoni, quando imponeva alla macchina il capogiro di una sbandata di cui soltanto lui sapeva tenere le redini, per regalarle un ingresso da sposa in ogni rettilineo.
La prima corsa in motocicletta nel 1920, l’ultima in auto nel 1950: trent’anni dentro i quali fu come se qualcuno avesse compresso un secolo abbondante. Tazio Nuvolari ci ha forse infilato più tempo ancora, sicuramente più vite, per ogni volta che si è giocato la sua. Facendo volare la monoposto sopra i dossi, per grattare i decimi di secondo ovunque fosse possibile; guidando di notte a fari spenti, durate una Mille Miglia, per tallonare Varzi senza che quest’ultimo potesse accorgersene; lanciando ogni volta un assalto col quale sembrava dover sfuggire al demone di una disperazione di fronte alla quale la morte sarebbe sembrata un sollievo: aveva nel frattempo perso due figli, entrambi quando avevano diciotto anni, in tutti e due i casi per malattia. Cosa sono, al confronto, i tornanti del vecchio, interminabile Nürburgring? Solo asfalto da ingoiare, alla faccia dei tedeschi e di Hitler, che nel 1935 non avevano nemmeno previsto che a dover essere premiato potesse essere un italiano. La bandiera fu lui a portarsela, da casa, quasi scintillante contro il fondo grigio delle monoposto germaniche sconfitte.
Noi lo consideriamo una leggenda, com’è ovvio, eppure non potremo mai comprendere del tutto quanto davvero lo sia stato, e come. Su una specie di carlinga terrestre, con in mano un volante che era quasi una ruota di bicicletta; protetto da un elmo di pelle morbida, da un paio d’occhialoni stile aviatore. È in una canzone di Lucio Dalla, in un meraviglioso modello di orologio della Eberhard, nella tartaruga che come simbolo paradossale volle donargli Gabriele D’Annunzio. E nemmeno questo rende l’idea, di cosa rappresentasse ogni volta che spariva nell’abitacolo senza cinture di quei siluri che sapevano ruggire senza poter promettere altro che una velocità a tratti indomabile. Carlinghe essenziali, metallo severo, gelido; equilibrio fragile di sospensioni, di raggi.
Forse non chiedeva altro che di concludere i suoi giorni con quel frastuono assordante nelle orecchie, Tazio Nuvolari; invece se n’è andato nel suo letto, un giorno di agosto di sessantasei anni fa. La prima e l’ultima cosa da uomo comune, in una vita in cui tutto ha gridato, di benzina o di dolore.