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Nicolino Locche, un uomo fatto di fumo

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Nicolino Locche, un uomo fatto di fumo

Questa è una storia fatta di fumo. Anche troppo, in un certo senso.

Fumo in tutte le sue accezioni e manifestazioni: quello impalpabile, così poco afferrabile che – Penetra in ogni fessura -, come cantava Fabrizio De André. E quello residuale dopo ogni boccata, da soffiare in alto dopo avergli fatto fare un giro, sempre un giro di troppo, a spasso per i polmoni. Il protagonista di questa storia li frequentava entrambi, i due tipi di fumo: al primo sono legati i suoi trionfi e la sua leggenda; dal secondo si lasciò invece sconfiggere definitivamente.

Nicolino Locche, sangue sardo e natali argentini, nella provincia di Mendoza, che tanti anni dopo la sua nascita lo avrebbe eletto cittadino onorario.

Un uomo fatto di fumo, letteralmente: con lo spostamento a volte millimetrico del busto; con la torsione improvvisa del collo; con la maniera di piegare le braccia degna di un Marcel Marceau in pantaloncini e scarpette. L’uomo che se lo trovava davanti, otto o nove volte su dieci faceva sibilare il guantone nell’aria vuota: Locche si era smaterializzato per l’ennesima volta, come se lui e il suo avversario stessero entrambi recitando un copione. E in effetti, ancora oggi, rivedendo le immagini dei suoi incontri, resta difficile credere che tutti i pugni che (non) riceveva lo mancassero sempre di così poco; ma di quel poco, sempre. Ci viene in mente un paragone, estemporaneo: le finte di Garrincha sul lato destro del terreno di gioco: con la gamba più corta, sempre la medesima gestualità nell’accennare il dribbling, sempre lo stesso lato; eppure, nessuno lo prendeva.

Così per Locche, che era subito diventato “Loce”, al minimo accenno di notorietà. A volte gli bastava arcuare il sopracciglio, più come un caratterista sotto il fascio di luce del palcoscenico che come un boxeur, per indurre il suo antagonista a presumere di essere lì lì per centrarlo. Quel sopracciglio quasi mai spaccato, quasi mai segnato. Come le labbra, del resto, spesso piegate in una specie di smorfia, ma quasi mai per irridere chi tentava di centrarlo: più che altro per generare perplessità in chi stava per far partire il colpo. E più il suo interlocutore aveva il profilo del picchiatore, più lo stile di Locche gli lasciava stimmate di frustrazione nell’anima.

Un uomo, anche, fatto per il fumo. Inseparabili, persino durante le sessioni di allenamento, la sigaretta o il cigarillo. Navigando controvento e controsenso rispetto a ogni norma atletica e sanitaria. Il suo rituale, prima di ogni incontro, prevedeva una pennichella di non meno di mezz’ora e una generosa fumata. Come se fosse normale. Il fatto è che per chi conosceva e frequentava Locche tutto questo era, in effetti, la normalità. O la norma, per rendere ancora meglio l’idea. Nelle sue modalità di vita, che lui comunque coniugava serenamente con la dimensione di atleta professionista, ci sono anche degli insegnamenti, involontari ovviamente, perché Locche non pretese mai di darne a nessuno: ciò che è giusto, ciò che è sbagliato; ciò che è buona norma fare o non fare sono concetti che non possono essere mai del tutto intesi in senso assoluto, perché vanno sempre declinati in chiave individuale. Nicolino Locche sapeva, e sentiva, che le sigarette gli facevano male e che gliene avrebbero fatto sempre di più; che probabilmente gli avrebbero anche un poco accorciato la carriera, oltre all’esistenza. Ha però voluto pagare quel dazio scientemente, senza nemmeno dover scendere a patti con la propria coscienza: quelle volute di fumo dentro lo stanzino, magari con le mani già fasciate prima di mettere i guantoni, erano l’espediente migliore per cercare serenità e concentrazione prima di salire sul quadrato a sgusciare da ogni parte di fronte alla batteria dei colpi che partivano dalle mani del suo avversario di turno; cominciando, al solito, a muoversi di fronte al malcapitato come se volesse rovesciargli addosso un secchio di anguille vive, obbligandolo a tentare di afferrarle. Anguille sul quadrato, affumicate dalle mille sigarette del prima e del dopo.

Che pugno aveva Locche? Una domanda che sembra fuori contesto, come se stessimo raccontando una disciplina diversa dalla boxe. Non un gran pugno, né col destro né col sinistro; nemmeno un colpo risolutore, sulla carta. Però nell’essenzialità dei pugni che da lui partivano, c’era la facilità di trovare un bersaglio umano già fiaccato, prostrato anzi e cotto a puntino dalla fatica e dalla frustrazione dovuta al tentativo di rimettere quelle anguille nel secchio.

Fu così, esattamente così che si andò a prendere il titolo mondiale dei Welter Junior, il dodici dicembre del 1968, a Tokyo, contro l’idolo di casa, Takeshi Fujii, coriaceo e inesauribile picchiatore di origini hawaiane. I colpi di quest’ultimo diventavano ipotesi, per poi perdersi ai lati di Nicolino, che da par suo si incurvava, abbassava la testa, si piegava sui fianchi, reiteratamente. Rara punteggiatura della sua consueta arte evasiva, i colpi ben assestati sul volto del nipponico, sempre più stanco, sempre più provato dall’acido lattico che gli mordeva spalle e bicipiti, senza però che la sua potenza si fosse tradotta in pugni andati a segno. Si sentiva irriso, oltre che irretito, il pubblico di casa, al pari del suo idolo che per la prima volta vedeva vanificata la sua azione da quella sorta di resistenza (apparentemente) passiva.

Seduto sullo sgabello che avevano tirato fuori al suo angolo al termine della decima ripresa, Fujii spiegava qualcosa con animosità, come se non si capacitasse di ciò che tentava di far capire al suo staff. Ma più di lui parlava la sua faccia, livida, gli zigomi tumefatti, con gli occhi pesti, non più a mandorla, solo due linee sottili per le fessure.

– Non riesco più a vederlo –, così disse in quel minuto di pausa il Campione del mondo in carica. E mentre lo diceva, capiva di non essere più tale, perché in quella frase c’era la formalizzazione della sua rinuncia. Non lo vedeva più, ma forse sarebbe più giusto dire che non lo aveva visto mai, quella sera, perché per mezzora mai era riuscito a prenderlo. Mai.

Nicolino Locche Campione del mondo. Tirando pochissimi colpi; schivandone mille. Come al solito, grazie a quella specie di magia; quel dono di natura che gli permetteva di fissare i guanti del suo avversario, ma come se li vedesse al rallentatore: un po’ come la vista delle mosche, che un millesimo di secondo prima di farsi spiaccicare al muro spiccano il volo in qualche direzione.

Lo avrebbe difeso, quel titolo, fino al 1972, sempre senza mai tradire la sua personale declinazione dell’arte pugilistica, che in fondo coi pugni avrebbe sempre avuto poco a che fare. Una sera più che in tutte le altre, per la verità: affrontava lo sfidante Domingo Corpas, uno spagnolo che si affidava alla propria potenza di fuoco. Un altro picchiatore. Non il principale avversario di quella notte, però: i tendini del braccio destro lesionati nel mezzo della seconda ripresa. Nicolino che decide di proseguire fino alla quindicesima appellandosi solamente al sinistro, oltre che alle sue schivate. Con la testa abbassata, con lo sguardo fisso sui guanti dello spagnolo, con il busto piegato. E, come quasi sempre, con le braccia lungo i fianchi; a volte addirittura dietro la schiena. Nessuna posizione di guardia: avete mai visto Spiderman fare a pugni col il cattivo di turno?

Non si preoccupava, né si scandalizzava per come intorno a lui gli altri decidessero di vivere. L’ambiente della boxe non è abitato da santi, vale anche per il resto del mondo. Proprio per questo chiedeva di vivere come più gli piaceva, scendendo a patti col suo essere atleta, e campione, in nome della sua personale visione del benessere. Del resto, dopo aver vinto il titolo mondiale, quando venne ricevuto da Peròn in persona, con tutti gli onori, il dittatore non potè non chiedergli quello che tutti, prima o poi, gli chiedevano: come facesse a fumare così tante sigarette, perché non avesse mai provato a smettere.

– E’ l’unico mio piccolo vizio, generale… – rispondeva laconicamente Nicolino, con tutta la ragione dalla sua, ma con la troppa nicotina che quella sentenza contemplava. Alle complicazioni indotte da quella, non sarebbe riuscito a sfuggire all’infinito; il conto lo saldò definitivamente un giorno del 2005, dopo una serie di complicazioni al cuore e ai polmoni, senza riuscire a diventare vecchio. Del resto lo aveva sempre saputo, dall’inizio lo aveva accettato. Tentò di spiegarlo, come aveva fatto con Peròn, anche a un altro importante politico, Juan Carlos Ongonia, che lo aveva visto fumare durante la corsa, al Parque Palermo, mentre preparava l’incontro per il titolo. Spense il cigarillo, subito dopo aver salutato il governatore ne accese un altro. Il suo modo di stare ai patti col vizio; la scelta di interpretare anche quell’aspetto della sua esistenza secondo uno stile tutto suo, come era riuscito a fare scegliendo quel paradossale modo di combattere, di apparire e soprattutto sparire quando era sul quadrato. Con la folla che traboccava, ogni volta, nell’arena del “Luna Park” di Buenos Aires; dove accorrevano numerosissimi i bambini e le donne, incantati da quella specie di recitazione dove quasi mai si picchiavano, lui e il suo avversario. L’altro ci provava, Locche andava in scena. E ogni tanto infilava il busto tra le corde, come un equilibrista, per salutare al volo un suo tifoso entusiasta. O mandare un bacio col guantone a qualche ragazza, lui che bello non era ma che ne stregava tante ogni sera.

A Mendoza, oggi, tutti sanno chi era Nicolino Locche, anche i bambini, che lo vedono boxare senza combattere nei filmati di YouTube e che soprattutto ascoltano la sua storia dai racconti dei loro nonni. E si ritrovano spesso nel parco dove c’è la sua statua: non ha i pugni alti, a schermare il viso, nella tradizionale posizione di guardia; ha un braccio abbassato lungo il corpo, il busto leggermente all’indietro, come se stesse ancora aspettando il colpo da schivare, invitando l’avversario a venire avanti.

Romano, 47 anni, voce di Radio Radio; editorialista; opinionista televisivo; scrittore, è autore di libri sulle leggende dello sport: tra gli altri, “Villeneuve - Il cuore e l’asfalto”, “Senna - Prost: il duello”, “Muhammad Ali - Il pugno di Dio”. Al mattino, insegna lettere.

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