Di Barbara Fiorio e Ettore Zanca
A casa Fiorio, se avrete la fortuna di poter sbirciare, non ci si annoia mai. Parola di Barbara.
Barbara Fiorio è una scrittrice che, con una delicatezza fotografica, ha raccontato la vita di felini e umani. Ha pubblicato il saggio ironico sulle fiabe classiche “C’era una svolta” (Eumeswil, 2009) e i romanzi “Chanel non fa scarpette di cristallo” (Castelvecchi, 2011), “Buona fortuna” (Mondadori, 2013 – ed. spagnola per Suma de letras, 2014) e “Qualcosa di vero” (Feltrinelli, 2015 – ed. tedesca per Thiele-Verlag, 2016). Per Einaudi ha scritto il racconto “La gattara” (antologia “Gatti – I racconti più belli”, 2015). Insomma una donna che narra e si narra con una fluidità invidiabile.
Ma oltre alla produzione letteraria, abbiamo chiesto a Barbara di aprire un baule. Vecchio, impolverato, che ricorda quello dei militari delle grandi guerre. E ne sono uscite due storie di calcio di famiglia, che è lei stessa a raccontare tenendo in mano le foto ingiallite. Tutto iniziò con suo nonno. Italo Fiorio.
“Per me mio nonno era solo mio nonno, un impresario edile in pensione che mi raccontava dei partigiani e della guerra. Sapevo poco di lui, da bambina.
Sapevo anche che gli piaceva il calcio e che ogni tanto andava a vedere il Genoa, che aveva due azioni della squadra, una per ogni figlio, e quel cuscinetto rosso e blu diviso in due parti che si apriva come un libro e diventava quadrato. Quanto lo desideravo! Ma era per andare allo stadio e a me, allo stadio, mi ci hanno portata una volta sola, avrò avuto cinque anni, e almeno quel giorno ho potuto sfoggiare il cuscinetto rosso e blu, sedermici sopra, urlare fortissimo “Gol!” quando lo urlavano anche il nonno e papà e incitare i calciatori con la palla davanti, ma solo quelli con la maglia rossoblu, i Nostri.
Quello che non sapevo era che mio nonno amava il buon calcio perché era stato un calciatore. Non famoso, suo padre glielo ha impedito, doveva andare a lavorare nei cantieri, altro che giocare al pallone, ma ho scoperto che ha giocato tanto, soprattutto di nascosto da lui, e che ha cominciato nella Pro Vercelli.
Non sappiamo come sia entrato in quella grande squadra (a quei tempi era una grandissima squadra, ho saputo), probabilmente lo avranno visto giocare, quando non studiava era sempre dietro un pallone. Pare che ne abbia fatto parte per un paio d’anni, non sappiamo con esattezza quali ma lui era del 1902, sarà stata la fine degli anni ’10, quasi ‘20. In quel periodo divenne molto amico di Virginio Rosetta, tanto che, qualche anno dopo, lo fece andare a giocare a Cossato per un’occasione anche questa persa nel tempo e nei ricordi di famiglia. Mio padre ricorda una foto di quel giorno, con mio nonno e Rosetta insieme sul campo, che purtroppo è stata rubata insieme ad altri piccoli cimeli.
Quando, finita la scuola, mio nonno tornò a Cossato, suo paese natale, andò a giocare nella Cossatese, forse per un’altra decina d’anni, anche questo non ci è chiaro, abbiamo alcune foto della squadra con lui che svetta, quasi sempre al centro e quasi sempre di profilo o di tre quarti. Perché non guardasse quasi mai in camera non lo so.
Mio padre sostiene che chi ha praticato uno sport non considera mai l’altra squadra come il nemico ma solo come un avversario sul campo: finita la partita si torna tutti amici. Non so se valga per tutti, di certo vale per la mia famiglia: non ho mai visto reazioni di invidia, di competizione agguerrita o di attacco agli altri, né in campo sportivo né in altri campi. Se qualcuno è bravo non importa se sia più bravo di noi, è bravo e basta, glielo si riconosce e lo si ammira per questo.
Resta una specie di mistero quello sulla maglietta della Cossatese negli anni ’20 e ’30. Era nera con una stella bianca, molto simile a quella del Casale. Molti mi dicono che la maglietta fosse la stessa, ma i Cossatesi si inalberano e difendono con orgoglio la loro storia e la loro maglia. C’è chi la ricorda bene perché il padre, della Cossatese, la teneva in casa come ricordo. Ed era tutta nera con una stella bianca. La differenza con la maglia del Casale sembra essere uno sparato bianco che la Cossatese non aveva.
Mio padre, invece, del ’32, che come tutti i bambini amava giocare al pallone, tiene per il Toro. Il motivo è molto buffo: quando era in collegio a Torino, dove lo avevano messo per fare le medie mentre la famiglia si trasferiva a Genova, per dividersi in squadre a ricreazione si usavano i nomi delle squadre cittadine, il Toro e la Juventus. Per mio papà non c’era una distinzione tra le due, ma siccome erano di più i bambini della Juventus, la possibilità di giocare aumentava nettamente se si stava nel Toro.
“Vabbè, papà” gli ho detto un giorno, ridendo anche un po’, “ma era come essere i bianchi e i neri. Perché poi sei rimasto tifoso del Toro?”.
Ha sorriso e stretto le spalle a sottolineare l’ovvio. “Per lealtà. Quando scegli una squadra è quella, non cambi idea”.
E il Grande Toro è stata in effetti la passione di mio padre per molto tempo.
Avrà avuto quattordici o quindici anni quando la Nazionale venne a Genova per un allenamento: doveva poi incontrare una squadra straniera, chissà quale. In quegli anni la Nazionale, mi ha detto mio padre, era praticamente composta da tutto il Grande Toro (so che lo si deve chiamare così, dopo Superga) più Parola e Depetrini.
Lui, coi soldini guadagnati raddrizzando chiodi per mio nonno, si è comprato una foto del Toro e si è infilato nel pullman della squadra, fermo davanti allo stadio di Marassi.
Immagino che adesso sia impensabile che un ragazzino faccia una cosa del genere.
Emozionatissimo si è fatto fare l’autografo da tutti i calciatori: quelli del Toro ognuno sulla propria immagine, mentre Parola e Depetrini nel retro della foto.
Era un grande ammiratore anche di Carlo Parola e della sua mitica rovesciata, da piccola me ne parlava spesso. Quando, diciassette anni fa, Parola è morto, mio padre ha cercato sull’elenco il numero di telefono e ha chiamato la vedova per dirle quanto ammirasse suo marito. Una telefonata che mi ha commosso, quando me l’ha poi detto: avevano parlato per un’ora, lei gli aveva raccontato come si erano conosciuti e innamorati, mio padre le aveva raccontato dell’emozione che gli dava vedere il marito giocare in quel modo.
Sono gesti spontanei e puliti che mio padre ha fatto spesso e, con mio stupore, non è mai stato frainteso. Fa parte di un altro tempo, di un’umanità diversa dalla nostra.
Io, il calcio, non l’ho mai seguito. Nemmeno i mondiali. Li ho visti qualche volta per fare compagnia agli amici, ma non sono mai riuscita ad appassionarmi.
Però mi piaceva giocarlo. Alle medie ero nella squadra della mia classe, l’unica classe di tutta la scuola che aveva due femmine, io giocavo in difesa, a volte in porta, raramente in attacco, e non ero mai l’ultima a essere scelta: ci mettevamo tutti in fila davanti ai due capisquadra e, a turno, venivamo scelti. Di solito, al quarto o quinto turno, venivo chiamata. Roba di cui andavo fierissima.
Per eredità familiare mi fa piacere quando il Genoa e il Toro festeggiano una vittoria e accetto di buon grado che il mio vicino di sopra copra la facciata del palazzo con uno stendardo rossoblu quando il Genoa vince qualche partita importante.
Aprire quel baule commuove anche chi ascolta. In quelle foto non c’è solo la vita di una bella famiglia che amava giocare a calcio, c’è un pezzo di storia di un calcio che sapeva di legno e spogliatoi umidi, di maglie pesanti e palloni cuciti ed escorianti. Di retine sui capelli e di maniche rimboccate e cariche con la tromba dalla curva. Di questo sa il calcio a casa Fiorio, una pietanza che ha diviso con noi, con un sapore indimenticabile.
Le foto dell’autrice sono di Sara Lando.
Barbara Fiorio.
Nata a Genova, dove vive e scrive libri, è docente di comunicazione e tiene laboratori di scrittura, ironica e narrativa, tra cui il Gruppo di Supporto Scrittori Pigri (GSSP), giunto alla sua quinta edizione.
Il suo sito è www.barbarafiorio.com