Michele Alboreto, signor pilota, pilota signore
Il 25 aprile 2001 ci salutava Michele Alboreto, l’ultimo pilota italiano ad aver vinto un Gp a bordo della Ferrari. Morto a soli 45 anni a seguito di un incidente mentre metteva a punto la sua autovettura, venne paragonato ad Ascari per la grinta, sfiorò il titolo mondiale nel 1985, arrivando secondo alle spalle di Alain Prost.
Chi l’ha detto che si debba sempre cominciare dall’inizio? Peraltro quelli bravi, o che vogliono apparire tali, cominciano dalla fine.
Noi cominciamo da un sorriso, garbato e aperto al tempo stesso: quello di Michele Alboreto, un pilota italiano.
Riccioli neri, come l’Andrea di Fabrizio De André, che sovrastavano l’incarnato scuro di un viso mediterraneo, sempre atteggiato a un’espressione franca, quasi gioviale. Una faccia che sarebbe stata ideale per un napoletano; invece era, anzi è milanese Michele Alboreto, figlio della piccola borghesia meneghina dalla quale ha ereditato la cortesia e le buone maniere, non quindi la spocchia tipica di certi rappresentanti dei ceti più agiati.
E come l’Andrea di De André, aveva un amore anche Michele, lo avrebbe avuto per tutta la vita: quello per i motori, germogliato naturalmente, come tutte le cose alle quali si è destinati. O predestinati, se preferite.
In macchina si sta più comodi che in moto, deve aver pensato presto; nemmeno troppo presto, in verità, visto che il suo esordio nell’abitacolo di una fragile e spartana Formula Monza, categoria di monoposto “basiche” a ruote scoperte, è datato 1976. Vent’anni, già tanti sacrifici per correre, alimentando un sogno che per chi nasce ricco di famiglia è una delle tante velleità, a prescindere dal talento che si ha o si pensa di avere; per Michele Alboreto è una scommessa da vincere innanzitutto portando in dote più che altro il suo talento, evidente al punto da fargli trovare quegli estimatori che gli riempiono il serbatoio delle possibilità. E il talento è la moneta con cui ringrazia chi gli fornisce i mezzi per poter continuare a dimostrarlo: c’è una serie di “grazie” che Michele Alboreto non ha mai dimenticato di pronunciare, e di continuare a pronunciare, nel tempo: la scuderia Salvati, che lo assiste e lo aiuta nel passaggio alla Formula Italia; Mario Simone Vullo e la sua squadra, che gli mettono a disposizione una monoposto performante al punto tale da classificarsi quarto nella classifica generale; Giampaolo Pavanello che lo ingaggia per la scuderia Euroracing e gli consente il primo grande salto: quello nel Campionato Italiano di Formula 3. Nel mentre, il ringraziamento principale Alboreto deve sempre e comunque continuare a rivolgerlo a se stesso, alla propria pervicacia nel dimostrare il suo talento, a prescindere da categorie e cilindrate. Lo capisce, tra gli altri, l’esperto Piercarlo Ghinzani, che se lo ritrova come compagno di squadra e scudiero verso il titolo di categoria. Tutte definizioni che ad Alboreto cominciano presto ad andar strette; perché si capisce, lo capiscono in molti, che il pilota milanese dai tratti mediterranei e sempre distesi è destinato a salire progressivamente, di risultati e di categoria.
Nel 1980, si aggiudica il titolo europeo di Formula 3. È forse, dei tanti passaggi di carriera di Alboreto, la vera e propria linea d’ombra della maturità agonistica. È lo spartiacque tra le aspirazioni e il riconoscimento unanime del suo talento, la legittimità delle sue aspirazioni di pilota. E pilota lo è davvero, in senso assoluto e con un talento e una dedizione che prescindono da categorie e specificità: nello stesso periodo lo nota e lo valorizza Cesare Fiorio, che lo vuole alla guida della Lancia per il Campionato Sport Prototipi: anche per le competizioni a ruote coperte il pilota milanese si rivela uno sul quale puntare, per la sintesi non comune di prestazioni e affidabilità nella messa a punto della vettura. Vince a Misano, in Formula 2, nel 1981. È la conquista meno importante, in ogni caso.
Com’è che diceva il poeta? Ah già: – Nessun uomo è un’isola -, come a significare che il destino di ognuno è in qualche modo legato e determinato da quelli altrui. Ancora oggi, in pochi sanno chi sia stato il Conte Gughi Zanon di Valgiurata, oltre che un produttore di caffè e un rappresentante della nobiltà italiana del settentrione. Scomparso recentissimamente, è stato un mecenate e uno scopritore di talenti in campo automobilistico: da Peterson a Senna, per capirci. E in mezzo, anche come epoca, il nome di Alboreto che il Conte, personaggio influente ma discreto e riservato, sussurra all’orecchio dell’amico Ken Tyrrell. Quel sussurro è il passaporto per la Formula Uno, che lo vede esordire nel 1981 a Imola. Un anno dopo, sullo stesso circuito, si ritrova sul podio e il suo è l’unico sorriso integro, in mezzo a quelli per sempre svaniti del vincitore Didier Pironi e di Gilles Villeneuve, l’amico tradito, giunto al suo ultimo traguardo. Ma questa è un’altra storia, che torneremo a raccontare.
Alboreto vince, sempre nel 1982, tra i muretti di Las Vegas, su un tracciato dove la destrezza di guida interseca la roulette russa dei ritiri e dei cedimenti meccanici altrui. L’anno seguente, sempre al volante di una delle monoposto di Ken “il boscaiolo”, che hanno cominciato a beneficiare della sponsorizzazione della Benetton, trionfa a Detroit, nel tracciato forse più artificioso della storia del Circus iridato, grazie al modo in cui il motore aspirato e le gomme assecondano la sua interpretazione di quel viluppo contorto di tornanti.
Settembre 1984:
“È un giovane che guida tanto bene, con pochi errori. È veloce, di bello stile: doti che mi rammentano Wolfgang von Trips, al quale Alboreto somiglia anche nel tratto educato e serio. Ho sostenuto che è fra i sei migliori della Formula 1 e che con una macchina competitiva non sprecherà certamente l’occasione di diventare campione”.
Parola di Enzo Ferrari, uno che nei confronti dei piloti italiani aveva in passato nutrito una sorta di istintiva, inconscia diffidenza. Con rare eccezioni: Alboreto è stata una di queste.
Ci aveva visto giusto il Drake, come sempre del resto: nella stagione 1985, quella del suo apice a livello di risultati, il pilota di una Milano quasi popolare arriva a giocarsi il titolo mondiale contro Alain Prost e la sua McLaren MP4/2B, vettura le cui tante versioni saranno, nel tempo, un protrarsi della perfezione motoristica e aerodinamica. Non sbaglia nulla, Alboreto, in quella stagione. A sbagliare è la Ferrari, quando per un’impuntatura, figlia più che altro degli umori del Drake stesso, decide di sostituire per il finale di stagione le turbine tedesche KKK con le statunitensi Garrett. L’occasione, così nitida come si era presentata, per Michele Alboreto non si paleserà mai più. I suoi guanti accarezzeranno il volante del Cavallino fino al 1988, stagione dopo la quale lo attenderanno altri anni di una Formula Uno per lui declinante, ma al tempo stesso di grandi soddisfazioni automobilistiche e di una competitività sempre più affinata nelle gare di durata: selettivo nella scelta degli impegni e nella preparazione delle prove, vincerà la 24 Ore di Le Mans del 1997, su una TWR – Porsche del team Joest Racing.
La stessa aria assorta, da pilota meticoloso e collaudatore innanzitutto di se stesso, doveva averla anche il 25 aprile del 2001, prima di abbassare la visiera del suo casco, già calatosi nel frattempo nell’abitacolo della Audi R8 Sport, da testare sulla pista del Lausitzring, in Germania. Anche nella consueta concentrazione assoluta di quel giorno, un sorriso bonario e discreto deve avergli attraversato il viso, prima che vi sistemasse sopra la maschera bianca. Forse la stessa espressione a metà tra timidezza e simpatia con la quale aveva conquistato sua moglie Nadia sui banchi della scuola, quando sognava di diventare pilota. Merita di vivere per sempre in quegli istanti, Michele Alboreto, quando gli occhi del pilota si fissano verso un punto noto soltanto a lui, prima di sentire dietro di sé il motore che prende vita.