“Gli hai fatto male! Adesso ha paura, lo hai ferito!! Hai capito?!? Non è una macchina, è un uomo” diceva l’allenatore a Rocky dopo che aveva fatto sanguinare il pugile russo. Anche per la Mercedes, il successo della Ferrari nel Gran Premio d’Australia, è stato un brutto colpo. Uno di quelli che fanno particolarmente male perché inaspettati e diretti. Come un sinistro al volto pochi secondi dopo il suono della prima campana. Al Cavallino Rampante non hanno vinto, infatti, per un cedimento meccanico delle Frecce d’Argento, ma perché sono stati capaci di sopravanzarle in pista, mostrandosi superiori nel ritmo gara. Un valore emerso soprattutto dopo il momento-clou della corsa, il pit-stop di Vettel, rivelatore anche dello stato d’animo del team anglo-tedesco nell’immagine di Toto Wolff che sbatte il pugno sul tavolo quando si rende conto che dopo il cambio gomme la Ferrari è davanti a Hamilton.
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Un colpo da ko al quale la Mercedes non ha saputo contrattaccare, finendo per dover rendere l’onore delle armi alla “SF70H”. Una supremazia non certo episodica perché, se Hamilton ha lamentato qualche fastidio con l’erogazione della potenza della sua power-unit, è stato altrettanto chiaro come l’altra Freccia, quella di Bottas, non abbia mai lottato per il primo posto e soltanto nel finale si sia avvicinata alla vettura gemella, limitandosi però a farsi vedere negli specchietti.
Viene da chiedersi dunque dove fossero le differenze di prestazione con la presunta toy-car che la Mercedes avrebbe schierato nei test invernali di Barcellona, ma la sconfitta sul tracciato scivola in secondo piano rispetto a quanto accaduto al box, cioè il pugno di Wolff. Un gesto che lascia poco spazio alle interpretazioni perché ben sintetizza il bruciore della ferita. La Mercedes è stata battuta sul campo non per problemi meccanici (Sepang ’16, rottura del motore di Hamilton) o manovre kamikaze dei propri piloti (Barcellona ’16, collisione Hamilton-Rosberg dopo il via), ma per meriti altrui. Ed è successo alla prima gara (sempre dominata dal 2014), quando i valori tecnici sono perlopiù un’incognita, e non a stagione in corso, quando era già evidente la loro egemonia.
In questo caso invece è tutto diverso. Lauda e soci si ritrovano, per la prima volta in tre anni, a dover rincorrere e per loro è una situazione completamente nuova. All’improvviso, come svegliati da un lungo e piacevole sonno, si sono resi conto che qualcuno può insidiare la loro leadership e mettere in discussione le loro ambizioni iridate. E sul momento è normale reagire d’istinto, sbattendo il pugno sul tavolo. Perché anche loro, come il pugile russo, sono uomini e non macchine; perché vincere cinquantuno gran premi su cinquantanove, genera un’inevitabile assuefazione al successo. Si pensa sia la normalità, non si contempla una sua assenza e appena viene a mancare, è normale l’irritazione, la rabbia. Ora però, per capire la profondità di questa ferita e i suoi tempi di cicatrizzazione, occorrerà vedere l’atteggiamento che la Mercedes farà seguire a quel pugno. Se metterà in conto che i trionfi del passato servono esclusivamente come motivazione in più per aggiungerne altri e che la sconfitta degli avversari passa attraverso la propria capacità di saper soffrire, potrà ambire a nuovi allori. Viceversa, se sottovalutasse i fatti di Melbourne e il senso di quel pugno (sul quale ha saputo scherzarci grazie alla… Lego!), derubricandoli a mero incidente di percorso e illudendosi che proprio la storia recente sia sufficiente per rimanere in alto, potrebbe andare incontro a una stagione con più di un inconveniente.
In definitiva, a Brackley sono chiamati a dimostrare di sapersi rialzare dopo essere finiti al tappeto. Per quanto visto nelle qualifiche dell’“Albert Park”, hanno ancora la monoposto più veloce del mondiale. Ma che appare più umana e meno marziana rispetto al passato. Il prossimo Gran Premio della Cina ne certificherà meglio lo stato di salute, al pari di quello della Ferrari che, se con una vittoria non ha certo messo una polizza sulla stagione, guarda a Shangai con rinnovata fiducia e una consapevolezza: “Non fa male, non fa male”.