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Max Schmeling: tutte le lacrime di Eva Braun

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Max Schmeling: tutte le lacrime di Eva Braun

Dover essere ricordati per forza in relazione all’epoca in cui si sono compiute le proprie imprese; non soltanto in ragione di esse: una delle ingiustizie patite dai campioni, quando la storia dello sport incrocia destini più grandi; soprattutto quando la Storia, col senno di poi, maledice se stessa, sempre imparando poco dai propri errori, peraltro.

Max Schmeling, se avesse potuto scegliere, non si sarebbe certo fatto poggiare sulle spalle, come una vestaglia lugubre, quel soprannome così fosco, che solo a pronunciarlo lasciava intendere la cupezza di anni consegnati alla follia di un’esaltazione. L’Ulano Nero, vollero chiamarlo, come se fosse un complimento,  come se anche di quello lui dovesse essere grato ai padroni del suo paese, del suo tempo. Gli Ulani erano cavalieri di prima linea, nella tradizione militare polacca, quindi il soprannome intero per la propaganda era Ulano nero del Reno. Per non confondersi.

Il fatto è che le traiettorie così nitide del suo diretto destro, devastante, dovettero in un modo o nell’altro assecondare gli angoli retti di una svastica.

Bello, potente, invincibile: nemmeno se l’avessero concepito in laboratorio, e nella Germania di quegli anni questa è tutto fuorché una battuta, l’alfiere del Nazismo sarebbe venuto così bene ai gerarchi e alla propaganda di regime. Un peso massimo completo e moderno, iconico nell’estetica e dai punti deboli difficilmente individuabili. In realtà del suo sinistro diceva che gli serviva soltanto per reggere le posate a tavola: era più che altro un modo per dire che affidava le proprie sorti a quel destro potentissimo e al tempo stesso preciso come un bisturi, per i tagli che apriva. Gli sarebbe andata molto meglio se l’avessero definito il Jack Dempsey tedesco, ma sarebbe stata comunque un’ingiustizia. Perché Schmeling seppe essere un campione autentico e nel compiere le sue imprese, una su tutte, dimostrò la lucidità di chi è sempre alla ricerca del proprio miglioramento, dell’affinamento della propria tecnica. E sul quadrato assieme a lui non salivano certo Hitler o Goebbels; il campione era il campione, quello che sarebbe stato sotto qualsiasi altro cielo, in qualsiasi altro tempo. Senza nessun tiranno in divisa a lucrare sulla sua gloria.

Fu inevitabile che il Fuhrer se ne invaghisse, perché era un muscolare veicolo di propaganda e al tempo stesso un’immagine pulita attraverso la quale rappresentare il regime nel mondo: perché Schmeling sarebbe stato in grado di vincere e far parte dei dominatori dei pesi massimi suoi contemporanei con o senza il Nazismo alle spalle; questo lo risarcisce ancora oggi, anche se non del tutto, dall’associazione forzata con la propaganda totalitaria.

Per dirla tutta, a casa di Hitler non era quest’ultimo quello che aveva la maggiore adorazione per Schmeling, ma il mondo lo avrebbe scoperto soltanto parecchi anni dopo. Ci sarà tempo per parlarne.

Per essere un prototipo di nazista, ci fu sempre troppa America nel suo destino; lì si era preso il titolo nel 1930 contro Jack Sharkley e sempre a lui aveva dovuto lasciarlo, due anni dopo. Il pubblico statunitense si era innamorato della sua immagine: era un tedesco aperto e gioviale, un campione che piaceva alla gente; per di più all’inizio del decennio dall’altra parte dell’oceano non era ben chiaro quello che stava per accadere in Germania; nemmeno gli ebrei americani avevano capito bene quanto minacciosa fosse quella croce uncinata disegnata sulla vestaglia che l’Ulano indossava per salire sul ring. Lui non ha mai negato di essere sempre stato a conoscenza dell’esistenza dei “campi” e del progetto della Soluzione finale; semplicemente, scelse di non compromettersi più di tanto e se è vero che funse da uomo immagine del Nazismo ogni volta che gli venne chiesto, lo è altrettanto che non volle mai tesserarsi per il partito e che, soprattutto, non acconsentì mai alla richiesta di licenziare il suo manager, l’ebreo Joe Jacobs. Glielo chiese a più riprese Joseph Goebbels in persona, non uno qualsiasi. Questo vale più di una vestaglia di cattivissimo gusto.

La sera del 19 giugno del 1936 gli ebrei americani avevano un sentimento ben diverso rispetto a qualche anno prima, nei confronti di Schmeling. Era tornato negli Stati Uniti per sostenere un incontro che avrebbe offerto al vincitore la possibilità di battersi per il titolo mondiale.

Nel frattempo, la sua immagine da rotocalco si era arricchita grazie al matrimonio con la bella attrice Anny Ondra. Una cecoslovacca, ma in nome della popolarità del campione e dell’immagine che metteva al servizio del regime il fastidio fu molto contenuto.

Di fronte a lui, sul ring allestito allo Yankee Stadium, la faccia scura e la coscienza sporca d’America: Joe Louis, “Brown bomber”, il primo nero che poteva aspirare al trono dei Massimi dai tempi di Jack Johnson. Non c’è un capitolo dedicato a lui, in questo libro; eppure il suo nome torna, di quando in quando, in queste pagine, come il ritmo del blues dissimulato in mille spartiti. Oltre agli ebrei e ovviamente ai neri, tifavano per lui buona parte dei reietti d’America, degli esclusi, di coloro che nel paese delle supposte possibilità non avevano saputo riconoscere la propria. Strano incrocio di destini, con la Storia in prima fila a bordo ring: da una parte un campione nero che ora si ritrovava, suo malgrado, a rappresentare anche quegli americani che non gli permettevano di sedere nelle prime file di un autobus, o di consumare un hamburger seduto al tavolo di una rosticceria. Dall’altra, un insigne rappresentante della cosiddetta razza eletta, un ariano che era tale soltanto per definizione, perché i suoi tratti somatici e i suoi colori facevano pensare più a uno spagnolo, o a un greco. Perché ai regimi manca sempre il senso del ridicolo.

Destinati a diventare amici, Schmeling e Louis, senza mai dimenticarsi l’uno dell’altro, in una vita che sarebbe stata munifica di anni e serenità per il tedesco, mentre all’americano avrebbe riservato vizio, perdizione, raggiro e oblio. Fino all’aprile del 1981, quando le spese per il suo funerale furono pagate da Max Schmeling.

Le radio d’America e di Germania sintonizzate sulle vibrazioni delle corde dello Yankee Stadium; Anny Ondra che segue l’incontro dalla casa dei signori Goebbels; Hitler all’ascolto mentre è in viaggio per Berlino.

Bollente, il tappeto del ring, al centro dei fasci di luce dei tanti riflettori posizionati per le riprese del circuito cinematografico. Schmeling, che cura ogni particolare, dalla dieta alla preparazione, in modo meticoloso, nelle scarpe fa inserire due suole isolanti. Louis, che proviene da una sequela di venti vittorie, ragiona con la rilassatezza di chi pensa di dover scegliere soltanto la ripresa in cui spegnere le luci all’avversario. La stessa rilassatezza con la quale ha impostato gli allenamenti in vista del match. La pensano come lui, forse con convinzione maggiore, i bookmakers.

Qualcuno dirà che già durante il primo round a Louis si erano riempiti i piedi di vesciche; altri che il caldo soffocante aveva finito per prostrare il favorito, che non aveva messo in preventivo una contesa sulla lunga distanza. La verità, o quella che più le assomiglia, è che Louis non perde l’incontro alla dodicesima, quando frana definitivamente dopo una combinazione di Schmeling, ma alla quarta, a causa del destro d’incontro del tedesco che lo tramortisce, facendolo rialzare ma senza più le certezze che fino a quel momento lo avevano accompagnato.

La Storia, sempre quella con la maiuscola, impedirà a Schmeling di affrontare Jim Braddock, “Cinderella man”, per giocarsi la cintura. Le feroci proteste degli ebrei americani faranno sì che la possibilità venga offerta proprio a Joe Louis, che batterà Braddock per poi regnare per tredici anni sul trono dei Pesi Massimi. Si sarebbe preso la rivincita, perentoria, anche contro Schmeling.

Ma la sera del 19 giugno 1936 apparterrà per sempre all’Ulano nero e la vittoria contro Louis sarà per sempre il suo capolavoro sportivo, scolpito nella memoria dei suoi tifosi, come della sua, più profondamente della sera in cui aveva conquistato il titolo.

È vissuto fino a sfiorare il secolo, Max Schmeling, che ha combattuto fino quarantatré anni e che nei primi tempi del Dopoguerra ha speso le proprie energie e la propria parola per dimostrare che non era mai stato un nazista, nel senso ideologico della parola. Meglio di lui, avrebbe saputo spiegarlo David Lewin, ebreo: durante la famigerata “Notte dei cristalli”, tra il nove e il dieci novembre del 1938, mentre i nazisti distruggevano i negozi degli “impuri” e bruciavano sinagoghe, lui fece in modo di nascondere i due figli di Lewin nella sua suite dell’Excelsior di Berlino, dicendo al portiere di non disturbarlo perché si sentiva indisposto. Nessuno avrebbe osato interrompere il riposo di una gloria nazionale, nemmeno in una notte come quella. Una sera del 1989, durante una conferenza all’Hotel Sands di Las Vegas, del quale era dirigente, un commosso Henry Lewin disse ai giornalisti: – Se non ci avesse aiutato, non sarei qui con voi. Non ci sarebbe neppure Max… –

Schmeling non si era mai vantato del gesto. Anche se gli sarebbe stato utile per riscattare molto più velocemente la propria reputazione una volta finita la guerra.

Non fu colpa sua se i nazisti se ne innamorarono. Più di tutti, fra gli adepti del regime, lo amò Eva Braun, come si legge in alcune pagine di diario rinvenute dai servizi segreti americani negli anni cinquanta: – Ho atteso tre ore davanti al Carlton, ho dovuto vedere lui che comprava fiori per Anny Ondra e la invitava a cena. Ha bisogno di me solo per determinati scopi, altrimenti non mi cerca; quando dice che mi ama, vuol dire che mi ama solo in quel particolare istante. Non mantiene mai le promesse. Perché mi tormenta con questa storia? Vorrei essere gravemente malata e non sentire più nulla di lui per almeno una settimana. Perché devo patire tutto questo? Se solo non avessi messo gli occhi su di lui! Mi sento una miserabile… –

Così scriveva colei che il 30 aprile del 1945 sarebbe diventata ufficialmente la Signora Hitler nel bunker di Berlino.

Romano, 47 anni, voce di Radio Radio; editorialista; opinionista televisivo; scrittore, è autore di libri sulle leggende dello sport: tra gli altri, “Villeneuve - Il cuore e l’asfalto”, “Senna - Prost: il duello”, “Muhammad Ali - Il pugno di Dio”. Al mattino, insegna lettere.

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