Manny Pacquiao, il Re delle Filippine
Gli aneddoti che potrebbe raccontare sulla sua infanzia nelle Filippine sono più numerosi dei metri quadri delle ville che possiede sparse per il mondo. Se consideriamo che soltanto quella di Los Angeles ne conta diecimila, ecco spiegato perché non sappiamo da dove cominciare, nel raccontare la vita e le opere, proprio così: la vita e le opere di Manny Pacquiao. In mezzo, tutti i suoi titoli mondiali e soprattutto le otto categorie di peso in cui è riuscito a conquistare la corona: Mosca, Supermosca, Piuma, Superpiuma, Leggeri, Superleggeri, Welter e Superwelter, per un’oscillazione di peso di diciannove chilogrammi. Con i suoi efficaci, a volte discussi integratori vitaminici; con le sue tabelle nutrizionali che oscillavano dalle tremila alle settemila calorie giornaliere.
Non sappiamo da dove cominciare, con lui, dicevamo. In realtà lo sapremmo, ma l’immagine stride come gesso appuntito sulla lavagna del nostro raccapriccio, per noi che dobbiamo solamente raccontarla. Figurarsi per lui, che l’infanzia se la vide fare a pezzi, letteralmente, il giorno in cui suo padre volle punirlo dopo l’ennesima disubbidienza. Aveva nove anni e un cagnolino, Manny, al quale era affezionatissimo, come lo sarebbe stato qualsiasi ragazzino di nove anni.
Il genitore catturò il cagnolino. Lo uccise. Ed è soltanto il preludio della crudeltà. Perché suo padre lo fece a pezzi. Per poi cucinarlo. Quindi, mangiarselo. Tutto qua.
Se non fosse accaduto, Manny non sarebbe andato via di casa così presto; forse non avrebbe nemmeno cominciato ad allenarsi subito. Chissà. Il primo combattimento lo avrebbe comunque sostenuto in strada, a dieci anni, per difendere suo fratello più piccolo da due teppisti. Come se a General Santos City, nel Cotabato del sud, in un angolo tra i più depressi e malfamati delle Filippine, fosse possibile incontrare gente diversa da delinquenti vari, prostitute maggiorenni e minorenni, miserabili d’ogni risma che ogni giorno inventavano la maniera di mettere insieme almeno un pasto decente. E il suo non era stato l’unico cane a essere stato mangiato da un essere umano, come è facile immaginare. Viene naturale abbozzare un mezzo sorriso, oggi, se si pensa a quella statistica redatta dalla Polizia di Stato delle Filippine nel 2017, secondo la quale a ogni serata in cui si è tenuto un suo combattimento, ha sempre corrisposto un sensibile calo dei reati in tutta la nazione.
Che razza di combattente sia stato, a prescindere dalla categoria di peso, lo dicono meglio di ogni altra descrizione i nomi dei suoi avversari: Pacquiao ha battuto, in alcuni casi più di una volta, Erik Morales, Ricky Hatton, Miguel Cotto, Sugar Mosley, Marco Antonio Barrera, Juan Manuel Marquez, Joshua Clottey, Oscar De La Hoya. Poi, è arrivato, dopo molti tentativi di organizzazione regolarmente falliti, uno di quegli appuntamenti che in genere vengono definiti dagli organizzatori e dalla stampa “incontro del secolo”. Non sempre è vero; in questo caso, la definizione è forse riduttiva. Dopo anni di trattative mai andate a buon fine, Pacquiao e l’imbattuto campione statunitense Floyd Mayweather Jr si sono dati appuntamento all’interno delle sedici corde il secondo giorno di maggio del 2015, con tre corone mondiali dei Welter in palio: Wba, Wbo e Wbc. Diciottomila spettatori sulle poltroncine, pagate a peso d’oro, del MGM di Las Vegas. dopo un incontro non particolarmente spettacolare, Mayweather si è imposto ai punti. La borsa dell’incontro prevedeva centoventi milioni di dollari per l’americano e 80 per il filippino. I biglietti per il match costavano tra i millecinquecento e i diecimila dollari l’uno, ma a ridosso della sfida i posti per il bordo ring sono arrivati a valere quasi centotrentamila dollari. La sola cerimonia del peso aveva richiamato dodicimila spettatori.
Nelle Filippine è difficile, per non dire impossibile, che il suo nome non venga fuori, prima o poi, all’interno di un qualsiasi discorso, anche prescindendo dalla boxe. Pacquiao possiede catene di negozi che portano il nome, anzi il soprannome della moglie, Maria Geraldine Jamora, chiamata Jinkee. Nelle sue rivendite si può trovare più o meno di tutto: giocattoli, abbigliamento casual, articoli per turisti, articoli d’elettronica e tanta altra roba. Possiede un impero immobiliare, con edifici i cui locali sono adibiti soprattutto a uso ufficio. Ha quasi cinquecento persone che lavorano per amministrare le sue attività, a cominciare dalle partnership pubblicitarie con aziende del calibro della Nike, della Hennessy e della Hewlett Packard.
Come se non bastasse, e comunque ancora non basta, è arrivata la politica: Pacquiao è dal 2016 senatore delle Filippine, grazie a più di sedici milioni di voti raccolti in occasione delle elezioni. Si era candidato per la prima volta come deputato nel 2007, ma non ce l’aveva fatta, per poi riuscire a farsi eleggere alle elezioni del 2010. Nello stesso anno ha fondato un suo partito, il “People’s Champ Movement”. Nel 2014 è stato al centro di polemiche per il suo alto tasso di assenteismo dal Parlamento filippino. In più di un’occasione Pacquiao ha anche manifestato l’intenzione di candidarsi alla presidenza del suo Paese, cosa che ha fatto nelle recenti elezioni, arrivando terzo. Come se non fosse già il re, delle Filippine.
La rapidità è sempre stata il marchio di fabbrica del suo modo di combattere, a prescindere dalle categorie di peso nelle quali si è cimentato: una statura che non ha del tutto messo d’accordo i suoi biografi, visto che negli almanacchi oscilla tra il metro e sessantasei e il metro e sessantanove, leggero indipendentemente dai chili di muscoli presi o persi (secondo qualcuno in maniera sospetta), Pacquiao sin da prima degli esordi come professionista si è fatto notare per la sua velocità di braccia, per la mobilità di tronco e gambe, abbinata ad aggressività e tecnica che corredano la dote principale: la tenacia, buona parte della quale si è sempre estrinsecata attraverso il suo pugno sinistro. Tutte queste doti nel 2012 gli sono valse il riconoscimento di un anello di diamanti da parte della WBO: il premio per essersi distinto come miglior pugile del decennio che va dal duemila al duemiladieci. Il più grande d’inizio millennio.
Non abbiamo finito, con PacMan, questo è il suo soprannome. Non finiremmo mai, del resto, perché qualche aspetto della sua esistenza resterebbe comunque fuori dalla nostra narrazione. Non basterebbe nemmeno un libro, fìgurarsi un capitolo. Perché dovremmo parlare della sua passione, a tratti smodata, per i giochi d’azzardo e per vari tipi di scommessa, a partire da quelle sui combattimenti dei galli; così come dovremmo elencare tutte le pellicole cinematografiche o le serie televisive alle quali ha prestato il volto e la sua istrionica interpretazione nelle Filippine. O, anche, dovremmo fargli i complimenti perché nel 2006 ha pubblicato un album musicale “Laban Nating Lahat Ito”, che ha venduto tantissimo presso i suoi connazionali. Altri suoi due dischi sono stati “Pac-Man Punch”, del 2007, e l’EP “Lalaban Ako Para Sa Pilipino”, del 2015. Oppure, ai limiti dell’incredibile, dovremmo ricordare che Pacquiaio, grandissimo appassionato (anche) di basket, è diventato…cestista. Non è una battuta, anche se non può che sembrare tale: membro onorario dei Boston Celtics dal 2010, Pacquiao ha esordito nel basket professionistico filippino alla fine del 2014, nella Philippine Basketball Association, diventando un giocatore dei Kia Carnival. Nel 2009 aveva già disputato alcuni incontri nella lega semiprofessionistica del suo Paese, con gli Mp-Gensan Warriors, compagine della quale, fra l’altro, era proprietario. Il suo esordio tra i professionisti è avvenuto, per l’esattezza, il 19 ottobre 2014, con la canottiera numero diciassette dei Kia Carnival, quando ha subito messo insieme due record: è diventato infatti il più anziano debuttante a trentasei anni e il più basso giocatore nella storia della P.B.A. Nel 2015 ha firmato i primi punti della sua carriera da cestista, mettendo a segno anche un tiro da tre il 21 agosto 2016, nella partita vinta 97-88 sui Blackwater Elite.
Soprattutto, ci piace ricordare come si sia messo al servizio della propria nazione nel 2009, dopo il terribile tornado che aveva causato milioni di vittime. Pacquiao in quell’occasione interruppe anche la propria preparazione per volare nelle Filippine mettendo a disposizione di un popolo straziato dal dolore la sua testimonianza e, soprattutto, un bel po’ di milioni di dollari. Tra le altre cose, si è accollato il costo di parecchi funerali, dopo i lutti che avevano colpito le famiglie più indigenti. Il 2009 è stato anche l’anno in cui si è radicalizzato il suo rapporto con la fede cattolica. Un aneddoto, per rendere l’idea di come questo aspetto sia diventato centrale, nella sua esistenza, ispirandola e per molti aspetti correggendola: nella palestra di Los Angeles dove ha preparato gli incontri più importanti, a un certo punto della giornata ogni attività si arrestava e doveva regnare il silenzio più assoluto: era il momento in cui Pacquiao aveva iniziato a pregare.
Nel 2008 la rivista “Ring Magazine” lo ha insignito della denominazione di miglior pugile al mondo “pound for pound”, ovvero a prescindere dalla categoria di peso. Come avevano avuto l’onore di essere definiti Ray Sugar Robinson e Joe Louis. Con parole di grande apprezzamento, Nino Benvenuti ha magnificato la capacità di Pacquiao di cambiare categoria di peso e riuscire a rimanere vincente: – Può darsi che un pugile avanzi di alcune categorie, io anche partii dai welter leggeri, cioé dai sessantatré chili, e arrivai a settantacinque abbondanti, fino a combattere da mediomassimo. Esistono pugili che fanno il salto di categoria, ma sono dei veri e propri superman, baciati da madre natura -.
Le parole più belle nei suoi confronti le ha però spese Bob Arum, forse il più grande promotore di eventi pugilistici negli Stati Uniti, assieme a Don King: – Sono stato il promoter di Muhammad Ali, Sugar Ray Leonard, Marvin Hagler; di grandi campioni ne ho conosciuti tanti. Però Manny Pacquiao è il miglior pugile che io abbia mai visto -.