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Manifesto della Futura Azzurrità

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Precisa identità tattica e forte personalità. In poche parole, “essere una Squadra”. Con la “S” maiuscola. Sarà questo il compito principale del prossimo commissario tecnico della Nazionale di calcio. Riportare l’Italia a essere un collettivo pienamente consapevole delle sue qualità e, soprattutto, del modo col quale esprimerle. Che si chiami Ancelotti o meno, il successore di Gian Piero Ventura dovrà ossigenare l’atmosfera di Coverciano dalla confusione e dall’incertezza annoverabili tra le cause principali del naufragio contro la robusta, ma tutt’altro che inaffondabile, nave svedese.

Perché a ogni livello, dalla Terza Categoria alla Nazionale, la bussola di una Squadra è composta da due punti cardinali: un assetto di gioco e una mentalità ben definiti. Il primo deriva da come stare in campo e dal tipo di calcio che si vuol proporre. Durante la gestione Ventura, l’Italia ha alternato almeno quattro moduli. Dal 3-5-2 d’esordio sulle rive di Tiberiade (Israele) si è spostata verso lidi tattici sempre più esotici, culminati con un 4-2-4 “innaturale” (più avanti vediamo perché) salvo fare ritorno al primo amore, dopo storie d’una sera col 4-4-2 o col 3-4-3, proprio nella doppia sfida contro la Svezia. Premesso che il modulo migliore è sempre quello dove i giocatori sono schierati nei loro ruoli – e il 4-2-4 non poteva esserlo perché largo a sinistra, in attacco, dove occorre un mancino che salti l’uomo e crei superiorità numerica, c’era Insigne che però, in quanto destro, finiva per accentrarsi andando a “sbattere” sui due attaccanti (Belotti e Immobile) o togliendo profondità alla manovra – ripetute centrifughe tattiche, alla lunga, non finiscono col disorientare la mente dei giocatori? Perché ogni volta è un po’ come ricominciare sempre da capo, tipo tela di Penelope, per un guadagno minimo – imprevedibilità agli occhi dei rivali che però, viste le prestazioni dell’Italia nel girone, è stata più teorica che effettiva – che non tiene conto di un altro problema: la mancanza di tempo per assimilare un’idea di gioco. Un principio che vale nei club, dove ci si allena tutta la settimana, figuriamoci in Nazionale dove si disputano circa dieci partite l’anno. Più che cercare la pietra filosofale, attraverso ripetute alchimie, dal 2018 converrà dunque presentarsi con la formula già ben chiara sulla lavagna, variandola di poco all’occorrenza (per esempio, dal 4-3-3 al 4-3-2-1 o al 4-3-1-2, in base alle caratteristiche dei calciatori del momento).



Capitolo mentalità. Siamo l’Italia e dobbiamo entrare in campo per “fare la partita”, non per subirla. Perché, aldilà del suo impoverimento tecnico rispetto a dieci-quindici anni fa, il nostro movimento rimane comunque uno tra i più importanti d’Europa, sicuramente superiore per qualità a quello svedese, che però non possiamo vanificare mediante un calcio rinunciatario, che si adatta all’avversario aspettando di colpirlo al suo primo errore. A Solna, oltre a esser scesi in campo con l’obiettivo di gestire lo 0-0 confidando che poi a San Siro un gol l’avremmo comunque segnato (peccato di superficialità), ci siamo abbandonati ai palloni alti e ai lanci dalla difesa. Per la gioia di Granqvist&co., perché non abbiamo giocatori dalle dimensioni vichinghe e il divario fisico ci ha visto perdenti. A riprova di ciò, le uniche azioni da gol manovrate, sgorgate al ritorno dai piedi del regista (Jorginho), che con le sue aperture di prima ha incrinato l’ermetica rima baciata fra i quattro di centrocampo e di difesa di mister Janne Andersson.

Prima che sul campo, però, la personalità di una Squadra si riconosce fuori. E non tanto per la retorica del gruppo e del senso d’appartenenza alla maglia azzurra, espressa dal fin troppo abusato “metterci la faccia”, quanto per la capacità di reagire e saper gestire le sconfitte. “L’importante è come sai resistere ai colpi, come incassi e se finisci al tappeto, hai la forza di rialzarti” diceva Rocky Balboa. E l’Italia, purtroppo, sotto quest’aspetto si è rivelata carente. A settembre, ha vissuto come fosse davvero l’Apocalisse (a lungo paventata e poi arrivata) la sconfitta contro la Spagna, la prima e unica del girone, quando invece avrebbe dovuto archiviarla come un incidente di percorso, per altro preventivabile perché la “Roja” è rinata dopo lo sbiadito Europeo 2016 e ci è stata superiore, e, assodato che il volo per la Russia sarebbe passato per il play-off, concentrarsi su di esso, cominciando a prepararlo nelle ultime tre partite del girone con serenità per poi andare ad affrontarlo col massimo rispetto e con la traduzione nei fatti, fin da subito, del messaggio che “siamo l’Italia e sono gli altri che devono adeguarsi a noi”, non viceversa.

Invece lo 0-3 del “Bernabeu” ha in un sol colpo sgretolato certezze che però, a quanto pare, non dovevano esser così granitiche come sembravano. Altrimenti perché una riunione tecnica tra i giocatori e senza l’allenatore dopo quella sconfitta? Perché se n’è parlato a lungo, a cominciare da una parte di mass media, come stop dall’effetto destabilizzante? Perché tanta fatica contro Israele, Macedonia e Albania? Perché, come si era amplificato il post-Madrid, si è suonata la grancassa anche alla vigilia della Svezia con dichiarazioni borderline tra la fiducia (eccessiva) nei propri mezzi e quella spavalderia che, da sempre, è sinonimo d’insicurezza? E perché, secondo quanto riportato da altri organi d’informazione, a poche ore dal match di Milano sarebbero circolate voci di dimissioni di Ventura dopo un’animata riunione tecnica e sms dove si raccontava la situazione come quella di una “nave senza comandante”?

Alle avversità si deve rispondere con equilibrio e compattezza fra le parti. Non abbandonandosi all’emotività del momento. Altrimenti una squadra non potrà mai diventare una “Squadra”. E, oltre a non andare molto lontano, si esporrà anche al rischio di figuracce epocali come la nostra.

Indipendentemente dal nome – l’importante è che abbia quell’esperienza internazionale mancata a Ventura (14 partite europee in 36 anni di carriera) – chi dai prossimi giorni siederà sulla panchina più ambita e discussa del Paese, oltre alla consapevolezza di ciò che lo attende, ricordi fin da subito che le scelte sono sempre materia esclusiva dell’allenatore. E chi lo sceglierà, fin dall’inizio e nei momenti di eventuali difficoltà, rammenti a chiare lettere la perdurante necessità di coesione e solidarietà tra tutte le forze coinvolte (Federazione, ct, giocatori). Altrimenti la Svezia non avrà insegnato niente.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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