Manchester United – Bayern Monaco, gli ultimi minuti dell’ultima Champions del XX Secolo
Il 26 maggio 1999 al Camp Nou di Barcellona va in scena l’ultima finale di Champions League del Millennio. Una partita incredibile che fino a pochi minuti dalla fine sembrava essere segnata definitivamente. Ma bastarono pochi minuti per cambiare tutto ed entrare nella storia. Vi raccontiamo quella pazza notte spagnola.
Fiumi di birra, inglese o tedesca, tanto per iniziare a litigare su quale sia la più buona: scorre a rivoli per le Ramblas di Barcellona, tra cori di sfida lanciati a intermittenza, tanto per innaffiare i grattacapi dei bookmakers.
Punteggiatura di manganelli, prima di arrivare allo stadio, ma tanto per mantenere l’ordine.
È l’ultima Coppa di un millennio che se ne sta andando, che sembra volersi trattenere aggrappandosi alle grandi orecchie, come le chiama un’Europa che il 26 maggio del 1999 deve decidere se andarsene a braccetto per le vie della Monaco bavarese con Lothar Matthäus oppure sedersi in un pub di Manchester per scolarsi qualche pinta ascoltando i racconti di Sir Alex Ferguson. E qualsiasi cosa dovesse scegliere, le andrà bene.
Arbitra Pierluigi Collina, forse il migliore del momento, sicuramente stimato come tale. L’unica e ultima Coppa dei Campioni del Manchester United risale al 1968: anche quella volta arbitrava un italiano, Concetto Lo Bello. Adesso George Best è in tribuna, nel tentativo di rivivere la sera di Lisbona che lo consacrò al mondo intero; tiene a bada il suo fegato, per quello che può, forse sapendo in cuor suo che non durerà. Sir Matt Busby invece è un ricordo che aleggia al punto tale da essere presenza.
È stato il Bayern Monaco a dover rinunciare alla prima maglia: qualcuno continua a vederci un segno; in tanti ricordano solo i precedenti che gli fanno comodo. Pur di baciarla, dopo averla sollevata, quella signora lì, si sarebbe disposti a credere anche agli asini che volano, e per i sudditi di Sua Maestà, cinquantacinque anni dopo, gli asini continuano a essere sempre i tedeschi, con la differenza che ora la Normandia in cui sbarcare per umiliarli è il manto erboso, tagliato alla perfezione, del Camp Nou.
Per lo United le assenze di Keane e Scholes sono più che pesanti: sono gravi; nella ricerca di un equilibrio Ferguson sposta Giggs da sinistra a destra e Beckham da destra al centro, collocando Blomqvist all’ala.
Tutta Europa si aspetterebbe fasi di studio, grande equilibrio che si protrae forse per tutti i novanta minuti. Bisogna tenersi sempre nel taschino un “a meno che”, quando è ospiti della Signora dagli ampi manici: al quinto minuto Johnsen abbatte Jancker al limite dell’area e Basler trasforma la punizione con un destro rasoterra dai giro contati, dalla traiettoria nitida e saggia, ma prevedibile: un velo di Babbel e una barriera mal disposta confondono Schmeichel, reattivo come una colonna di marmo, per l’occasione. È un vantaggio che dà, sin da subito, l’impressione di essere fatto per durare.
Stillicidio di duelli individuali e vicendevoli annullamenti; minuti che se ne vanno, mentre la inesauribile tigna inglese si infrange addosso al controllo teutonico. O sono soltanto i luoghi comuni per colorare una finale che, come tante altre, è destinata a rimanere bloccata, tesa e alla fine decisa da un episodio che non meriterebbe di passare alla storia per aver deciso l’ultima grande coppa del millennio ma che alla fine resterà indimenticabile, forse più a Manchester che a Monaco di Baviera?
Risvegli, da metà secondo tempo in poi. Ferguson toglie Blomqvist, che è stato divorato tatticamente da Babbel e inserisce Sheringam.
Comincia un finale fatto di occasioni a raffica, incursioni in un’area come nell’altra, nella morsa dei guanti di Kahn come di quelli di Schmeichel, che non ha mai smesso di maledire quella punizione del quinto minuti, che tra poco gli avrà negato la storia. Nel frattempo, Ferguson ha messo dentro anche Solskjaer. Lo chiamano “Baby face” e in effetti ha davvero la faccia di un monello. Di uno che non può fare a meno di essere dispettoso.
I canti dei tedeschi ora riempiono Barcellona, come uscissero dallo stadio, per arrivare al porto, per inondare di birra i mercati coperti, le chiese medievali, ogni angolo fatto rinascere da Gaudì.
Si arriva così al momento in cui manca solo il punto da mettere sul finale di una storia; di un’annata; di una coppa. E di un secolo di calcio su cui sta calando il sipario. Mancherebbe solo il punto, per meglio dire. Perché il finale qualcuno lo riscrive quasi oltre il confine della possibilità. La partita è donna, fino all’ultimo istante può concedersi a un pretendente diverso. E la Coppa si sceglie un altro padrone quando già sono pronte le punte sottili per incidere un nome che appare scontato.
Tre minuti di recupero. Verosimilmente i tedeschi depositeranno la palla in un caveau. Peccato soltanto per quei due calci d’angolo di Beckham, minuti 91 e 93.
Sul primo, con Schmeichel salito all’arrembaggio, Giggs riesce a concludere con la traiettoria che incontra Sheringham: in agguato, con una carezza di interno, quest’ultimo azzecca il corrodoio. Uno a uno.
Sul secondo, Sheringham funge da sponda, Solskjaer allunga lo scarpino e tutta una storia si riscrive sotto la traversa del Camp Nou.
Si fermano cuori nel medesimo istante, ma a quelli che esplodono corrispondono quelli che si sgretolano sotto i colpi dell’incredulità. I tedeschi si adagiano sul prato, annichiliti. Non hanno lacrime, non subito almeno.
Trentuno anni dopo, sorride George Best, nel riflesso di una Coppa dei Campioni: è solo più anziano, con tutte le sue vite ficcate in una sola esistenza, più segnato in volto e nell’anima, ma per una notte di follia i suoi occhi tornano a essere quelli del ragazzo che a Lisbona era corso ad abbracciare Matt Busby.