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Lupe Pintor, l’Indio che uccise il suo angelo custode

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Lupe Pintor, l’Indio che uccise il suo angelo custode

Compie oggi 68 anni Lupe Pintor, il pugile perseguitato dai fantasmi di una notte terribile. Vi raccontiamo la sua storia.

Lupe Pintor, detto l’Indio di Cuajimalpa, rivivrebbe la propria vita per intero, perché “la vida es un ratito” (la vita è un momento).

Il padre violentissimo e le angherie dei più grandi, che lo spinsero a dedicarsi anima e corpo al pugilato, furono lo sprone di cui non farebbe a meno, se avesse una seconda opportunità.

L’unica cosa cui rinuncerebbe, se potesse, sarebbe la difesa mondiale del 19 settembre del 1980, la terribile notte in cui il suo avversario, il gallese Johnny Owen, trovò la morte a causa dei suoi pugni.

Lupe Pintor, introdotto nella International Boxing Hall of Fame come uno dei più grandi pesi gallo della storia, è un uomo che ha da poco superato sessant’anni, ora in pace con se stesso. Ha amministrato bene il proprio denaro ed è proprietario di una grande palestra di boxe.

Però non passa giorno senza che egli pensi agli occhi privi di vita di Johnny, che solo pochi secondi prima lo fissavano con orgoglio. Non lo ha dimenticato e non lo vuole dimenticare. “Mi aveva salutato prima del match, dicendomi che ero il suo idolo. Me lo disse in spagnolo. Si fece quarantasei giorni di coma, prima di morire. La cosa mi spezzò il cuore”.

Eppure Lupe è un pugile. Ed un pugile sa che il proprio dovere è quello di picchiare per non essere picchiato. Non c’è violenza in questo; e non c’è colpa! La cosa, però, non gli fu mai di consolazione.

La tragedia sul ring

Nel 2002, a 22 anni di distanza dalla sera della tragedia, un uomo alto bussò alla porta della palestra: si chiamava Dick Owen ed era il padre di Johnny. Gli chiese di volare con lui in Galles dove una statua dedicata a Johnny sarebbe stata scoperta nei giorni seguenti. Lupe lo seguì. Tutti lo trattarono bene e dimostrarono per lui grande rispetto. Alla fine i gallesi strinsero in un abbraccio il piccolo indio, perché nel pugilato, si sa, la tragedia e la fatalità possono trovar inatteso spazio.

Lupe sogna sempre di Johnny, quasi tutte le sere. Con gli anni i sogni non sono più cruenti come gli incubi che aveva al principio, anzi Johnny è cresciuto, non ha ventiquattro anni come nel giorno della morte: è maturo e gli dà consigli sugli affari e sui suoi tanti figli. È un amico che viene a trovarlo tutte le sere.

Lupe, però, che è messicano ed è devoto alla Beata Vergine, come tanta gente dell’America Latina che ha conosciuto disperazione e povertà, ha solo un nome per il suo amico: “Johnny Owen, l’uomo che ho ucciso per disgrazia, è il mio angelo custode!”

Nipote di un insegnante sammarinese migrato nei licei delle vallate alpine, sono nato a Padova nel ’70 ed ho chiuso il cerchio di itinerante storia familiare rientrando nell’antica repubblica del Titano quando non ero ancora trentenne.

Avevo prima vissuto in varie parti d’Europa, dei Caraibi e dell’Africa grazie a diversi, talvolta avventurosi, impieghi giovanili. Al contrario, ora, lavoro in banca.

Ho coronato il mio amore per le lingue e le letterature straniere all’Università di Urbino, compiendo gli studi in una lunga e poco gloriosa carriera accademica.

Appassionato sportivo, ho praticato con alterne fortune il pugilato, il windsurf, il calcio, la canoa olimpica. Seguo il rugby con piglio da intenditore. Nel 2015 ho attraversato l’Adriatico in kayak nel suo punto più largo.

Scrivo di boxe perché ne vale la pena: il ring trattiene tra le corde le storie che la fantasia di un romanziere non potrebbe mai eguagliare.

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