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L’eredità di Russia 2018

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Russia 2018 ha sorpreso un po’ tutti per il positivo impatto che ha avuto, specialmente in Italia: chi avrebbe pensato che, nonostante l’assenza degli azzurri dalla competizione, il mondiale sarebbe stato così seguito? Buon per Mediaset che, con l’acquisto dei diritti televisivi, ha fatto un affare: i bene informati dicono che il break even dell’investimento sia stato raggiunto già agli ottavi di finale, premiando ampiamente l’intuizione di chi aveva deciso di scommettere sulla manifestazione nonostante qualche legittima perplessità. Calato il sipario sulla Francia che festeggia, si può avanzare qualche considerazione sui contenuti di questa ventunesima edizione della coppa del mondo.

L’organizzazione

Chapeau al comitato organizzatore: al netto dell’invasione di campo avvenuta durante la finale, che in fondo ha dato un tocco folkloristico all’evento, tutto si è svolto come meglio era difficile immaginare. Stadi pieni e colorati, tifosi ben controllati, campi di gioco simili al panno verde del Subbuteo e riprese delle telecamere hanno “bucato” le televisioni di tutto il mondo, trasmettendo immagini e dettagli che si sono facilmente tradotti in emozioni agli occhi degli spettatori. L’arrivo di moltissimi turisti ha consigliato agli organi governativi una gestione attenta ma più morbida dell’ordinario del flusso di visitatori, che si è tradotta in un notevole ritorno di immagine a livello internazionale. E’ vero, qualche notizia è stata censurata per non rovinare il clima idilliaco che si respirava (come quella della morte in seguito a un’aggressione dell’imprenditore Pjotr Ofitserov, amico dell’oppositore del governo Alexei Navalny) ma, complessivamente, il mese del mondiale è trascorso in un contesto ambientale più che gradevole.

Gli schemi

Diversi gli spunti di riflessione provenienti dai campi di gioco. A partire dai moduli adottati dai commissari tecnici che, nel mondo iper informato di oggi, tendono a una sorta di sincretismo tattico che ha come obiettivo finale la migliore occupazione possibile degli spazi per ottenere il controllo del gioco. Non esiste più il modulo assoluto dal quale non si può derogare: Svezia a parte, che ha proposto un’interpretazione piuttosto rigida del 4-4-2, le altre squadre hanno alternato soprattutto il 4-3-3 col 4-2-3-1 anche nel corso della medesima partita (il Belgio ha spesso fatto ricorso anche ad un 3-5-2 capace di trasformarsi in un 3-4-3), ricercando, appunto, l’assetto in grado di garantire la copertura ottimale del campo in funzione delle caratteristiche dei propri giocatori, degli avversari e del momento del match. Rispetto alle partite delle squadre di club, i ritmi di gioco sono apparsi più compassati: la stanchezza di fine stagione, il fatto di giocare ogni tre-quattro giorni e l’equilibrio dei valori delle varie nazionali ha suggerito a tecnici e calciatori di non aggredire l’azione avversaria già ai limiti dell’area di rigore opposta e di puntare su un calcio meno frenetico.

Le stelle

Se qualcosa è mancato al mondiale di quest’anno, si tratta del protagonista assoluto che si è aggiudicato il monopolio dei titoli di copertina. Quando, tra qualche anno, si andrà a raccontare la storia di Russia 2018, non si potranno convogliare i riflettori su qualcuno che abbia vestito i panni di un Pelè, un Kempes, un Paolo Rossi o un Maradona. La competizione ha più che altro celebrato il gioco di squadra come protagonista del quale celebrare le virtù, portato a un livello di sofisticazione mai così diffuso che ha contribuito alla spettacolarità e all’interesse del torneo, donando un equilibrio tra i contendenti che, unito alla mancanza di giocatori outstanding, ha generato quell’incertezza del risultato che è stato il motivo di maggior fascino del campionato. Si pensi al percorso della Croazia, arrivata in finale dovendo ricorrere sempre almeno ai tempi supplementari per aver ragione degli avversari; o al Belgio, vincitore di misura sul favorito Brasile e battuto sempre col minimo scarto dai futuri campioni francesi in quella che, forse, è stata la vera finale (anticipata) del torneo.
Detto ciò, il mondiale ha comunque proposto top player di valore assoluto che, seppur non fuoriclasse, hanno elevato il tasso tecnico complessivo e andranno ad alimentare gli scambi del calciomercato internazionale. Come Alisson Becker, portiere del Brasile che mirava alla consacrazione definitiva, e che ha dovuto invece fare i conti con un’eliminazione anticipata che ne ha frenato anche le ambizioni individuali. L’ottima stagione disputata con la Roma, ad ogni modo, gli ha garantito un nuovo contratto il cui tenore ne racconta la qualità assoluta. Tra i portieri, oltre alla conferma ad altissimi livelli di Thibaut Courtois, eletto come migliore del mondiale, si sono distinti Jordan Pickford, David Ospina, Kasper Schmeichel, Danijel Subašić e Hugo Lloris, seppur incappato nell’errore che ha consentito a Mandzukic di segnare il gol nella finale. Tutti accomunati dalla definitiva conversione del ruolo alle nuove esigenze tattiche: la capacità di essere estremi difensori non solo con le mani ma anche nella fase iniziale della costruzione del gioco, arrivando a costituire l’effettivo undicesimo giocatore di movimento. Dopo la celebrazione assoluta del gioco di squadra, la definitiva trasformazione del ruolo del portiere è un ulteriore eredità che ci lascia Russia 2018.

Proseguendo nell’analisi dei ruoli, come non evidenziare la sempre maggiore importanza che assumono i terzini nell’economia del gioco? L’archiviazione definitiva delle ali (con la piacevole eccezione costituita dal colombiano Quadrado, peraltro utilizzato a volte proprio come terzino) ha portato gli esterni di difesa ad essere la sponda di riferimento per allargare la manovra e, quando possibile, arrivare al cross decisivo per l’innesco degli attaccanti o dei centrocampisti inseriti in area. I migliori in Russia hanno dettato i paradigmi necessari all’interpretazione ottimale del ruolo: capacità di corsa in progressione e resistenza, buone doti di palleggio e attenzione alla fase di copertura. Pavard, Trippier e Meunier, in questo senso, hanno combinato al meglio queste capacità.

Come evidenziato per le ali, il calcio del Duemila sembra rimuovere dal suo orizzonte anche il trequartista, ruolo per il quale si faceva fatica a trovare una collocazione già nella seconda metà degli anni Novanta, quando talenti del calibro di Baggio, Del Piero e Totti dovevano cercare collocazioni alternative per riuscire ad essere funzionali agli schemi voluti dagli allenatori. Il dribbling stretto, la velocità d’esecuzione e la visione di gioco, venendo spesso soffocati dal pressing e dalle doti fisiche di difensori e centrocampisti in fase di non possesso, riescono oggi a trovare il loro miglior impiego nella fascia mediana del campo compresa tra le due aree di rigore, consentendo alla manovra di uscire dalla fase di impostazione e transitare in quella prettamente offensiva. Non è un caso che i migliori giocatori del torneo, Luka Modric e Eden Hazard, abbiano impegnato quella posizione, con qualche differenza nell’occupazione degli spazi: più simile al “volante” del calcio sudamericano il croato, con maggior sbilanciamento a ridosso delle punte il belga.

Arriviamo così agli attaccanti, la categoria più offuscata di questa ventunesima edizione dei mondiali. A partire da Cristiano Ronaldo e Messi, i più attesi, che hanno pagato con l’uscita agli ottavi di finale l’appartenenza a rappresentative non in grado di supportarne il valore. Mentre il portoghese è comunque riuscito a dare lustro alla propria immagine, la Pulce è completamente naufragata nell’entropia della nazionale argentina, bruciando l’ultima possibilità di giocarsi il mondiale da protagonista assoluto. Un po’ come il duo uruguagio Cavani-Suarez, eliminato dalla sfortuna il primo e orfano delle giocate del compagno il secondo nella decisiva partita contro la Francia. Anche Romelu Lukaku, miglior marcatore del Belgio con quattro reti, avrebbe potuto sfruttare meglio le occasioni avute, che ha spesso incenerito a causa di un bagaglio tecnico non sgrezzato appieno. Quanto a Neymar, è compassionevole sorvolare: nella terra degli zar, il talento di O’Ney è evaporato nelle sue stucchevoli sceneggiate. E che dire, invece, di Harry Kane, centravanti della nazionale inglese? Può essere definito deludente il mondiale di un attaccante che segna sei gol e vince il titolo di capocannoniere? No, ovviamente. Ma una riflessione sullo spessore del torneo del vice capitano del Tottenham va fatta, perché delle suddette marcature Kane ne ha consuntivate tre su calcio di rigore e tre contro Panama, l’unica, vera cenerentola della competizione, risultando spesso poco incisivo anche nel contributo al gioco della sua compagine. Non se ne mette in dubbio il valore assoluto ma semplicemente il rendimento in sede di coppa del mondo. Più di lui hanno sicuramente lasciato un segno Antoine Griezmann e Kylian Mbappé: arrivato nel pieno della maturità professionale l’attaccante dell’Atletico Madrid, forgiato da Simeone e Deschamps e ormai capace di scindersi nel doppia funzione di punta e suggeritore; in cammino veloce verso un futuro luminoso il miglior giovane del mondiale, dotato di qualità fisiche e tecniche ugualmente impressionanti. E’ proprio Kylian Mbappè, probabilmente, l’eredità più tangibile che Russia 2018 lascia al calcio dei prossimi anni.

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