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Léo Júnior, nostro signore del centrocampo

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Léo Júnior, nostro signore del centrocampo

Eravamo abituati troppo bene, questo lo sappiamo e ce ne rendiamo conto ogni anno di più: la nostra Serie A, a metà anni ottanta, era come un fumetto sexy per gli occhi di un quattordicenne. Non solo e non tanto perché i più grandi prima o poi sarebbero arrivati a giocare in Italia, quanto perché avevamo la certezza di trovarli anche in provincia, non solo nel circuito metropolitano con prevalenza di maglie a strisce. Basti pensare al massimo paradigma di questo discorso: Franco Dal Cin che porta a Udine Arthur Zico. Non serve aggiungere altro.

Quando nell’estate del 1984 arrivò uno dei giganti dell’epoca, forse non si ebbe subito la percezione di quanto fosse grande: aveva nel destro i giri contati di un Eberhard e il resto era cucito col filo di ferro, quanto a tempra caratteriale e carisma in mezzo al campo. Lui che in mezzo al campo pretese di giocarci precisando che, a trent’anni, avrebbe cambiato emisfero quasi più per smettere di essere considerato “soltanto” un terzino che per i tanti soldi che a quel tempo, dalle nostre parti, nessuno negava a nessuno. La maglia numero cinque del Torino stava per posarsi sulle spalle di un imperatore; che all’inizio corremmo il rischio di giudicare come uno dei tanti che trovavamo normale venissero ad animare le nostre domeniche di campionato. Anche perché in “quel” Brasile, proprio quello, che ebbe il solo difetto di essere troppo bello per preoccuparsi anche di essere del tutto vero, lui partiva dalla linea difensiva di sinistra e, salendo con i piedi che si ritrovava, a cominciare da quel destro sul quale rientrava, costituiva una ulteriore fonte di gioco quando la palla gli arrivava levigata dai tacchetti di Falçao, Cerezo, Socrates, Eder, Zico. Nel frattempo, aveva contribuito a portare il Flamengo allenato da Paulo César Carpegiani sulla vetta del mondo, dopo aver demolito un grande Liverpool a Tokyo, nella finale intercontinentale del 1981.

Innestato in un Toro già importante, quello capitanato da Zaccarelli con Dossena sulla trequarti e Serena di punta, riuscì subito a rappresentare il valore aggiunto che proiettò i granata talmente in alto da portarli a contendere al Verona di Bagnoli lo storico scudetto che poi i gialloblù vinsero alla fine di una cavalcata memorabile.

Leovegildo Lins da Gama, Léo Júnior per chiunque abbia ammirato la sintesi di qualità e sapienza tattica, che si traduceva in onnipresenza nelle fasi del gioco, con punteggiatura di gol. Dieci, soltanto nella prima stagione in granata. E scaturigine di conclusioni, o occasioni, per ogni calcio piazzato di cui si incaricava, dai corner in su. Chi parla oggi di tiro a giro, si riguardi qualche suo calcio di punizione, con la parabola arcuata suggerita dal goniometro del destro. Forse i genitori di Insigne dovevano ancora fidanzarsi.

Se al Torino dopo un triennio chiuso polemicamente per un dissidio con Gigi Radice, si ricordano di lui come uno dei grandi di sempre in maglia granata, forse il più grande dopo il Torino del 1949 e al pari con gli scudettati del 1976, ancora più sorprendente fu il biennio al Pescara dal 1987 al 1989: arrivato in riva all’Adriatico da trentatreenne già precocemente ingrigito, nel baffo e nella criniera leonina che lo facevano sembrare ancora più anziano, prese per mano la banda di Galeone – intelligentissimo nell’attribuirgli subito lo status di leader, così come Gasperini nel consegnargli la fascia da capitano – e per due anni fu spettacolo, allo Stadio Adriatico come in trasferta. Con punte memorabili, a San Siro contro il Milan come allo Stadio Adriatico contro la Juventus.

Quando, trentacinquenne, se ne tornò a Rio per indossare di nuovo la casacca rubronegra del “Mengão”, oltre al ricordo della grandezza tecnica e del carisma di leader per mezzo dei quali aveva giganteggiato, letteralmente, in un campionato che da da giganti era abitato e animato, lasciò la sensazione indelebile che mai sarebbe stato dimenticato, a Torino come a Pescara e, puntualmente, ogni volta che varca l’oceano per tornare dai suoi amici italiani, riscuote l’ammirazione di chi lo vide giocare e anche quella di chi ancora non c’era, che lo ha soltanto sentito raccontare.

Come abbiamo fatto noi, con una punta di nostalgia per quel tempo magico, per quell’epoca in cui le figurine avevano i baffi.

Romano, 47 anni, voce di Radio Radio; editorialista; opinionista televisivo; scrittore, è autore di libri sulle leggende dello sport: tra gli altri, “Villeneuve - Il cuore e l’asfalto”, “Senna - Prost: il duello”, “Muhammad Ali - Il pugno di Dio”. Al mattino, insegna lettere.

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