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Lazio-Galatasaray, quell’invasione turca per vendicare Vienna: ordine pubblico alla romana

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“Mamma li turchi”, è italico costume gridare di fronte a un atteggiamento contrario alla morale comune o alle regole del vivere civile. Retaggio di un passato lontano, che riaffiora saltuariamente nella nostra stupenda, quanto stuprata, lingua nazionale. Etimologia da ricercare, di cui si dispongono diverse versioni e che, a dirla tutta, storicamente dovrebbe aver ben poco a che fare con i “veri turchi” e le loro presunte barbarie. Insomma, una sorta di grande “calderone” del passato, in cui leggende popolari e credenze mistiche e misconoscenti hanno gettato un po’ di tutto, mescolando e dando vita a simili detti.

Il “turco” è l’invasore, il colonizzatore, lo stupratore e il malfattore. Giunto sulle nostre coste per depredarle, saccheggiarle e violare selvaggiamente le nostre donne. Fumare “come un turco”, bestemmiare “come un turco” (benché nel lessico mediorientale non esistano improperi contro le divinità). Una mistificazione. Un modus operandi che l’umanità si porta dietro di default. Spesso per ammaliare le folle e informarle come meglio si crede. Altre volte per mistificare la realtà dei fatti. Altre ancora per pura propaganda politica o ideologica.

Senza perderci in analisi storiche o linguistiche, possiamo tornare ai giorni nostri. All’Italia contemporanea e ai suoi intransigenti quanto “perfettamente” collaudati metodi per gestire l’ordine pubblico. L’eufemismo è d’obbligo se si torna qualche giorno indietro e si usa come metro di paragone tutto ciò che ha circondato Lazio-Galatasaray. Partita già annunciata “a rischio” da settimana e per la quale erano previsti circa 2.000 tifosi provenienti dalla stupenda città maestosamente adagiata sul Bosforo.

Nella serata che precede il match si parla di qualche scaramuccia in centro e di due accoltellati (uno per parte) in zona Ponte Milvio. Che di fatto sarebbe l’unico episodio da riportare nella cronaca nera e per il quale chiedere, a chi di dovere, come sia possibile non riuscire a mantenere la tranquillità a due passi dove l’evento sportivo avrà luogo? Soprattutto in un contesto storico come il nostro, in cui ogni scelta di militarizzazione urbana e ghettizzazione del cittadino è giustificata dal motto “la sicurezza prima di tutto”.

Ma la Questura di Roma, nelle ultime annate, ne ha fatte vedere delle belle. Dalla morte di Ciro Esposito, su cui pesano inevitabilmente scelte più che discutibili piovute dall’alto sul percorso da fare per le tifoserie di Napoli e Fiorentina, all’ultima grottesca pagina delle barriere e dei controlli asfissianti all’Olimpico. Divieti, limitazioni e manipolazioni mediatiche per giustificare il tutto che hanno portato a un dato difficilmente smentibile: a Roma non si sa gestire più l’ordine pubblico, perché si fa di tutto per estirpare il problema alla radice vietando, di fatto, a tifosi e manifestanti di turno anche di espletare i loro diritti basilari.

Logicamente si è perso il polso della situazione e, almeno così sembra, anche la criticità più semplice e basilare diventa un casus belli con il resto del mondo. Una guerra in cui, in pieno costume italiano, difficilmente qualcuno è pronto ad assumersi le proprie responsabilità. Così succede che i tifosi del Galatasaray, qualche ora prima del fischio d’inizio, vengano concentrati in Piazza del Popolo per essere condotti a Villa Borghese, sugli autobus che li porteranno allo stadio. Le scene, tutto sommato, sono quelle classiche che possiamo osservare in ogni manifestazione di piazza ma, persino, in ogni concerto all’aperto (esempio massimo il concertone del Primo Maggio in Piazza San Giovanni).

I supporter turchi avanzano, torce e striscioni alla mano. Esplodendo qualche petardo. Il tutto più per folklore che altro. Eppure la retorica propagandistica è già partita. “Gli ultras turchi devastano la Capitale”. Un siparietto in cui le forze dell’ordine sono descritte inermi e incapaci di fronte alla calata degli Ottomani e il questore D’Angelo, nei panni del Comandante Giovanni Sobieski, ultimo alfiere della lotta alle truppe del Gran Vizir Kara Mustafa. Tornate per un pomeriggio in scena nel tentativo di vendicare la sconfitta di Vienna.

Una retorica che si scaglia immediatamente contro la Uefa, colpevole, in fin dei conti, di lasciar liberi i tifosi di muoversi all’interno del continente (cosa vera in parte, visti i continui divieti nei confronti di determinate tifoserie, ovviamente non corrispondenti a quella zona geografica verso cui occorre essere vassalli per ragioni politiche ed economiche). Facendo “persino” usufruire loro di un qualcosa sancito ormai da decenni: quel trattato di Schengen che da ormai tre lustri in Italia, almeno in ambito di ordine pubblico per manifestazioni sportive ( LEGGI ARTICOLO), è calpestato in virtù di regole discriminatorie e palesemente anticostituzionali (oltre che contro la morale di un Paese che si dice evoluto).

Insomma: il Viminale incolpa la Uefa di non utilizzare il “modello italiano”. E’ sempre colpa di terzi. Lo scaricabarile è un’antica arte nazionale. Come la pizza a Napoli o il pesto a Genova. Addirittura, e qua entra in scena la propaganda di cui sopra, il candidato al Campidoglio Guido Bertolaso (sì, quello che ai tempi della Protezione Civile aveva illuminato un po’ tutti con l’idea di far saltare in aria Ponte Sant’Angelo per evitare che i barconi vi si incastrassero con le piene del Tevere) ha immediatamente comunicato, via Twitter che: “In caso di elezione, mai più tifoserie organizzate a Roma”. Ottima scelta, in linea con i tempi retrogradi in cui viviamo, dove il proibizionismo e non la risoluzione di un problema vengono certamente avanti a tutto. Anche perché più facilmente attuabili. Poi come spiegarlo all’Unione Europea, che marcia esattamente in senso contrario, resta ancora un mistero.

Morale della favola: la Questura di Roma, contraddicendosi in termini e nonostante le lamentele, ha dichiarato che “tutto è andato per il meglio” (forse i due a Ponte Milvio stavano semplicemente tagliando una mela), addossando le colpe di eventuali disagi a organi e decisioni esterne. Sottolineando quella cecità e quell’arroganza che ormai da tempo hanno affogato Roma in una sorta di dittatura, alla quale il Ministro Alfano ha detto persino di voler mettere il carico da dieci. “Voglio più militari nella città”, ha tuonato il titolare degli Interni su Il Messaggero.

La domanda che ci facciamo è: perché non si riescono a gestire, sia materialmente che mediaticamente, eventi del genere usando metodi fermi ma sicuri, senza distorcere la realtà dei fatti e senza creare all’occorrenza mostri da combattere, solo per giustificare ulteriori giri di vite verso le libertà comuni? Si riesce a guardare un avvenimento senza il clamore più consono a una puntata di “C’è posta per te” ma con la sobria professionalità che ci si aspetterebbe da organi di un certo livello? C’è la volontà di dimostrarsi grandi, evoluti e civili permettendo a tutti, senza imposizioni medioevali, di venire in trasferta a Roma nel rispetto delle regole?

Ci piacerebbe avere risposte. Sperando che nel frattempo non si decida di mettere steward, barriere, tornelli e controlli nelle più grandi piazze di Roma. Rigirando così la frittata, senza mai ravvedersi del fatto che sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Diabolico proprio come quel Gran Vizir capitolato a Vienna. Perché la storia la scrivono i vincitori (anche se mentono).

FOTO: www.giallorossi.net

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