Nel 1992, nel corso dell’estate olimpica che restituiva a nuova vita la città di Barcellona e la Spagna stessa, in una energica folata prima della crisi del decennio successivo, la popolazione kosovara, di fatto fallita l’opposizione non violenta al pugno duro di Milosevic, era alle prese con i risultati del referendum per l’indipendenza. Che, in realtà, fu un plebiscito: oltre il 98% dei kosovari votanti (l’80% della popolazione) voleva un Kosovo libero e indipendente. Del resto, era la manifestazione prevedibile della stragrande dominanza dell’etnia albanese (il 90%) tra i kosovari, che rappresentava il vero problema di Milosevic, fino a bandire il bilinguismo serbo-albanese e a chiudere le scuole in lingua albanese: in Kosovo si doveva parlare il serbo, la lingua madre di un kosovaro su dieci.
Nel 2000, mentre i Giochi andavano in Australia, riscoprendo terre, colori e atmosfere dell’Oceania, e mentre Domenico Fioravanti ci faceva innamorare di sé, all’apice della sua giovinezza sportiva di crudele brevità, per i kosovari il clamore e la gioia delle Olimpiadi erano mai così distanti, non solo per questioni geografiche. Lì, la popolazione faceva ancora i conti con il terribile 1999, il secondo anno di una guerra che produsse 11.000 civili albanesi morti, e 800.000 profughi che avevano varcato i confini verso Albania e Macedonia.
Le ha attese a lungo le Olimpiadi, come molte altre cose, il Kosovo, la terra degli albanesi che ha dovuto lottare e perdere tanto, per essere riconosciuta come tale. I giochi della nostra giovinezza, che hanno il sapore della innocente gioia della scoperta, non erano un pensiero per ragazzi kosovari, in altre terribili faccende affaccendati, alle prese con una battaglia per l’esistenza come popolo, come terra, come esseri umani. Magari le ha guardate, quelle di Atene 2004, all’età di 13 anni, Majlinda Kelmendi. Magari le ha sognate, prima o poi. Ha sognato molto, il Kosovo, il suo prima o poi.
La storia dell’oro di Majlinda Kelmendi, il primo ad un’Olimpiade per il Kosovo, è la storia di una lunga attesa, non senza ferite. Senza superflua retorica, quanto fa bene al sentimento, l’oro del kosovo. Passa fatalmente per la delusione azzurra di una splendida Odette Giuffrida: non se la prenderà la judoka italiana d’argento, se rappresenta una sconfitta un po’ più indolore di qualsiasi altra. Dal suo titolo mondiale nel 2013, proprio a Rio de Janeiro, all’oro olimpico, per Majlinda sono passati tre anni. Certamente brevi, probabilmente lunghissimi, per lei. Un po’ più lunga è stata l’attesa del Kosovo, che nel mezzo della sua notte ha festeggiato d’una festa non come le altre. Quella per l’oro di una ragazza che alle sue prime olimpiadi, a Londra 2012, con la bandiera dell’Albania, non era andata oltre il primo turno. Non erano le Olimpiadi giuste, forse. Non erano le Olimpiadi sotto la bandiera giusta, può darsi. Majlinda ha vinto nel 2016, e ha vinto per il suo Kosovo. No, impossibile prendersela a male.