Last United: l’ultima volta di George Best
A un certo punto continuare a raccontarti comincia ad avere poco senso, George. Perché forse hai dato modo di raccontare anche troppo e ognuno si è sentito in diritto, qualcuno addirittura in dovere, di interpretare ogni cosa a modo suo. Come se non fosse la tua vita, come se si trattasse di qualcosa in cui tutti dovessero per forza inzuppare il biscotto. Quanto ti sarebbe piaciuta questa espressione, George? Per te ha avuto più di un significato, tra l’altro e vale, nella sua accezione più piacevole, per tutte le volte che hai potuto scegliere la sventola – fosse una aspirante Miss Mondo o una ragazza qualunque, non per questo meno bella – accanto alla quale stare disteso (si fa per dire); o in quella più fastidiosa, perché vale anche per quando sei stato più o meno in piedi, più o meno in equilibrio, dipende dall’ora e dal locale, e migliaia – solo migliaia ? – di giornalisti sono andati sul sicuro con i tuoi casini, quale che fosse il tipo di guaio in cui ti eri cacciato. Del resto, a proposito di carta e di giornali, ancora ti si contavano le costole sul torace quando tuo padre disse a Bob Bishop che aveva ottenuto per te un posto da tipografo, e che quindi avresti dovuto rinunciare alle incertezze del football; per tutta risposta, Bob disse a Dickie che tu i giornali non li avresti mai stampati: tu ci saresti finito sopra. Era già convinto di aver ragione, Bob, ma non poteva ancora sapere “quanto” avrebbe avuto ragione.
Ti stiamo dando del tu per questo, George; è un po’ come scriverti una lettera, forse perché un grande giocatore è una specie di benefattore, agli occhi di quelli che hanno potuto ammirarlo, che se lo sono goduto; non soltanto i tifosi delle squadre in cui ha giocato, ma tutti i tifosi, o anche semplicemente quelli che hanno ammirato il suo gioco. Ognuno poi prenderà ciò che vuole, e ricorderà quello che più gli rimarrà impresso; fa parte del gioco e, siccome ipocrita non lo sei stato mai, paga il conto dei locali, delle fuoriserie. Delle donne no, nella fattispecie, perché molte di loro avrebbero pagato, pur di venire con te.
Drink e dribbling iniziano allo stesso modo; non ci avevi mai riflettuto, eppure nessuno li ha interpretati meglio di te, a volte a distanza molto, molto ravvicinata; però non ti sei mai presentato ubriaco a un allenamento, quasi mai, diciamo, perché si narra di un’occasione in cui sembra fossi abbastanza sbronzo prima di iniziare a sgambettare al Cliff; poi dopo il riscaldamento è iniziata la partitella e hai messo dentro tre gol. Questa è vera, George? Sicuramente è verosimile, ma è lecito pensare che sia accaduto veramente e che tu ne sia stato molto orgoglioso, come se si trattasse perlomeno di un quarto di finale in FA Cup. A parte il suono iniziale delle due parole, cos’hanno in comune un drink e un dribbling? Per te si è trattato in tutti e due i casi di un qualcosa che ti sarebbe piaciuto replicare all’infinito, e che una volta cominciato non avresti voluto interrompere mai. Immagina una partita in cui l’arbitro non fischia mai la fine, con la gente che non si alza mai dal proprio posto per tornarsene a casa, perché tutti aspettano che tu continui a scattare, lasciando sul posto il malcapitato di turno. Sarebbe come un locale che non chiude mai, dove a un certo punto arriva sempre qualcuno che ti dà una pacca sulla spalla e che ha voglia di bere un bicchiere con te. In effetti, quando sei all’apice tutti passano, prima o poi, per darti una pacca sulla spalla.
Ci hai abituati male, George, da ogni punto di vista, perché ci verrà sempre più naturale pensare che fossero il tuo penultimo dribbling, il tuo penultimo drink. Sempre, che è un po’ come dire “mai” allo specchio. Forse eri semplicemente troppo bello, a proposito di specchi, e ogni volta che hai incontrato il tuo viso riflesso hai pensato che a te non sarebbe mai capitato, che non sarebbe mai cambiato il colore dei tuoi occhi, che non avresti mai avuto il viso gonfio, livido; non avresti avuto quelle orribili borse, quell’aria ebete, come quelli che incontravi nei pub, a cui sembrava che stesse per marcire la faccia. Non ti ha mai sfiorato l’idea che persino al più amato giocatore dello United possano non tornare i conti, a un certo punto, tra tutto ciò che gli è dovuto e quel poco che in teoria gli sarebbe proibito. Sarebbe, George, perché con te bisogna sempre usare il condizionale, come se l’unico modo per conoscere le regole fosse quello di infrangerle, magari per capire quale sia la soglia e che cosa si nasconda oltre.
È stato un po’ come per Dorian Gray, George, che in fondo non è un caso che l’abbia scritto un irlandese, anche se di Dublino. A ogni fischio d’inizio ogni vizio, ogni debolezza finisce su una tela nascosta in soffitta. Finché non arriva qualcuno a togliere il velo.
Il fatto è che per far filare davvero lisce tutte le cose della tua vita, comprese quelle che più sei riuscito a incasinare a meraviglia, avresti dovuto confinarle tutte dentro un rettangolo di gioco; perché i problemi non sarebbero neppure diventati tali, lì dentro, avrebbero rappresentato soltanto delle sfide e per te le sfide hanno avuto senso sempre e soltanto dentro quel perimetro.
Il gioco è stato il tuo sabato del villaggio, George: è la trovata di un poeta italiano, che non ebbe mai il problema di essere così bello come te, tutt’altro; però fece in tempo a descrivere un vincitore del gioco del pallone, come lo chiamava lui. Sosteneva che mentre stai pensando allo sballo che ti aspetta, il vero sballo lo stai già vivendo ed è così naturale che proprio per quello non te ne rendi conto. Quel poeta non poteva sapere che in First Division avresti giocato quasi sempre di sabato, però ha parlato anche di te, lui che non ha mai avuto una donna per davvero e non ha mai saputo cosa si provi a schiacciare a tavoletta l’acceleratore di una Jaguar; perché è come se avesse raccontato che dopo una partita, quando comincia la serata in un club di quelli giusti e ben frequentati, uno comincia a bere un drink dopo l’altro, sempre più forti, come se il meglio fosse sempre di là da venire. Invece arriva un’alba nebbiosa, e quando hai scolato l’ultima goccia si vede soltanto il fondo del bicchiere. Oh certo, un bel bicchiere George, magari di cristallo; però se ci pensi su un momento ti rendi conto che danno più soddisfazione i tacchetti d’acciaio, lordi di fango, di uno stopper del Leeds che ti rifila un calcione di quelli fatti bene, dopo averti dato ininterrottamente del figlio di puttana; perché quello è il momento in cui davvero comincia la festa, perché stai per rialzarti e sai che lo farai correre a vuoto per un paio di minuti buoni, per rimettere a posto le cose. È sempre stato questo il vero sballo, servito liscio, senza ghiaccio, al massimo qualche chicco di grandine, come in quei pomeriggi in cui l’erba sparisce a chiazze e la terra è piena di buchi per tutti i tuoi girotondi.
Sarebbe un errore chiederti quando hai smesso di essere un ragazzo del Cregagh Estate; sarebbe troppo semplice e, se davvero fosse stato così, avresti nel frattempo imparato a gestire tutto ciò che ha incominciato a girarti attorno, l’avresti cavalcata anche meglio la giostra; forse saresti stato addirittura più ricco. A proposito dei soldi e di come li hai sperperati, tra tutte le tue battute e le frasi che hai saputo distillare – questa parola ti farebbe sorridere – quella più celebre, proprio quella su quanto tu abbia speso per le donne e le auto, è la più banale, la meno riuscita George. Non perché sia poi così malaccio, ma perché hai saputo fare, in questo caso dire, molto di meglio.
C’è un episodio, apparentemente irrilevante, che però parla di George, quando si prende una pausa dall’essere Best. Eri in tournee con lo United; una tournee da sballo: Australia, Nuova Zelanda e infine San Francisco. San Francisco nella tarda primavera del 1967 voleva dire il centro dell’universo hippy, la quintessenza del cosiddetto mondo nuovo. Ti trovavi lì, il giorno del tuo compleanno, con Dave Sadler che ti propose di uscire per festeggiare i tuoi ventun’anni, l’età in cui ogni ragazzo si sente pronto per spaccare il mondo e in cui tu l’avevi già spaccato, con due titoli nazionali e la notte di Lisbona in cui diventasti il “Quinto Beatle”. Chiedesti il permesso a Matt Busby, che come sempre acconsentì, dopo le solite raccomandazioni. Nella città dove era lecito e in un certo senso obbligatorio essere fuori di testa, con una notte del genere servita su un piatto d’argento, tu e Dave ve ne andaste all’ “Edimburgh Castle”, un pub anglosassone vicino all’albergo. Avevi già conquistato l’Inghilterra, eppure volevi riprenderti un pezzetto d’Irlanda, perciò scegliesti di festeggiare con un cartoccio di fish and chips e soltanto un paio di birre chiare, forse per riscattare tutte quelle volte in cui a Belfast ti era rimasta l’acquolina in bocca perché non avevi in tasca gli spiccioli sufficienti. Tra tutte le tue storie, questa è davvero la più piccola, forse proprio per questo la troviamo commovente.
Prima ancora di arrivare alle descrizioni di cosa sia e come si manifesta una crisi di astinenza, sei riuscito a scherzare su quei precoci vuoti di memoria, su certi buchi neri in cui sono finiti alcuni di quei ricordi che avresti dovuto aver sempre presenti, come le cose più care a cui uno pensa finché non chiude gli occhi.
È francamente un’ingiustizia, George, che tu non sappia più nulla di tutto ciò che accadde in quella notte di maggio del 1968, quando l’Europa s’era appena inginocchiata sotto il tuo piede sinistro. Per te quella sera è finita dopo la doccia, più o meno. Non ricordi neanche quando e come sei uscito dallo stadio di Wembley, o la cena di gala all’Hotel Russell; eppure tutti gli altri si ricordano che c’eri. È normale che fosse cominciato a scorrere un fiume di champagne subito dopo il fischio di Lo Bello, così come è scontato che nessuno dei tuoi compagni fosse astemio; la differenza è che tutti gli altri sono riusciti a nuotarci attraverso, mentre tu, per la prima di una serie infinita di volte, ci sei annegato.
Tutti sanno com’è, di solito, il cielo sopra Manchester. Lo sa ancora meglio il pubblico dell’Old Trafford, quando sfida l’acqua, la nebbia, il vento che sembra prendere a schiaffi le gradinate, come se volesse mettere alla prova il bene che il popolo dello United vuole al suo club, visto che se ne sta lì, sotto gli ombrelli, con gli impermeabili e le incerate, fino a che i Diavoli rossi non hanno fatto il proprio dovere. Perché le coperture delle tribune non ti proteggono mai del tutto, quando la pioggia è così obliqua che sembra volersi infilare per forza tra le file dei seggiolini.
Quante volte lo hai visto, George? Tu che poi l’hai guardato in tutte le ore del giorno e spesso hai avuto il privilegio, chiamiamolo così, di guardarlo mentre la città era ancora addormentata, quando di lì a un paio d’ore in molti avrebbero chiesto il primo the e tu invece ancora indugiavi alla ricerca dell’ultimo scotch, o quello che diavolo poteva essere.
Però c’è stato un giorno in cui per te ha voluto essere più cupo e più scuro, il cielo sopra lo stadio. Era quel giorno che per nessun giocatore dovrebbe arrivare mai e che per te, comunque, stava arrivando troppo presto.
Forse è meglio raccontarlo al presente, come tutte le cose che non smettono di lasciare il segno, come ciò che tutti continuano a rivivere come se stesse accadendo di nuovo, forse per cambiare un finale che ferisce, che nessuno ha mai voluto accettare.
E allora sono i primi giorni di gennaio del 1974 e c’è da affrontare il Plymouth per un turno di FA Cup. Una di quelle partite in cui mille volte ti sei divertito a ridicolizzare un terzino, o uno stopper. Alla guida dello United ora c’è Tommy Docherty, “The Doc”, assistito da Paddy Crerand, che è quello che ti ha convinto a tornare all’Old Trafford, dopo una bella serie consistente dei tuoi casini. Non è più lo stesso United, non ci sono più Denis Law, Bobby Charlton e gli altri, la squadra va ricostruita con una serie di giocatori promettenti come George Graham e rimettendo in piedi te, che non sei al massimo della condizione, però ci stai dando dentro con gli allenamenti.
Il fatto, George, è che adesso hai anche rilevato un nuovo locale, lo “Slacks”, assieme a un paio di soci e poco prima di Natale lo avete inaugurato. Sembra che per il veglione di Capodanno tu abbia un pochino dilatato i tempi dei festeggiamenti e che il 2 gennaio foste in molti ancora lì dentro.
Il giorno dopo, giovedì 3 gennaio, non ce l’hai fatta a presentarti all’allenamento. A te è successo di rado ma negli ultimi tempi è come se tu abbia cominciato a tradire il football, che invece ti è sempre stato fedele, ogni volta che gli hai chiesto di farti voltare pagina. Hai ventisette anni, ma è come se avessi già vissuto un paio di vite: una goduta, l’altra bruciata, entrambe sotto i riflettori.
In realtà hai recuperato l’allenamento del pomeriggio, perché quando c’è di mezzo lo United non ce la fai a essere del tutto inaffidabile, come invece ti riesce alla perfezione per le altre stramaledette cose che ti girano attorno.
Docherty ti chiama un’ora prima della partita e ti comunica che non giocherai, anche se molti di quelli che oggi sono venuti all’Old Trafford lo hanno fatto per il tuo ritorno, lo sa persino lui ma se ne infischia.
Che storia è questa? È una cosa che non sta in piedi, è quello che non sarai mai pronto ad affrontare, perché in fondo nessun grande giocatore lo sarà mai, ma questa in particolare non puoi sopportarla perché non te la meriti. Non ce la fai nemmeno ad andare in panchina perché improvvisamente avverti che non è soltanto la partita che ti viene negata, oggi. Oggi ti hanno tolto lo United e allora preferisci essere tu a dire basta, prima che te lo dicano gli altri.
Quando Paddy Crerand si sente dire dalla tua voce che stavolta è finita, coglie un accento diverso, rispetto a tutte le altre volte in cui in passato hai minacciato una cosa del genere. Ti dice di non fare lo scemo ma capisce che mentre parlate, per la prima volta dal 1963, George Best non ha a che fare col Manchester United. E te ne stai a bere un the, mentre i ragazzi là fuori faticano per portare a casa uno striminzito 1-0.
Questo è il colmo: George Best che durante una partita dello United non gioca, e nemmeno si sbronza. Il mondo alla rovescia.
Poi sali sulle gradinate dell’Old Trafford quando tutti sono ormai andati via; non ti era mai venuto in mente di fare una cosa del genere e di fare una cosa del genere e quello ti fa capire che, allora, stavolta è finita davvero. Te ne stai a contemplare gli spalti vuoti, le lattine accartocciate e i penny caduti di tasca ai tifosi, quelli che tu e “Fritzy” vi mettevate in tasca quando vi mandavano a spazzare le gradinate, dopo che avevate finito di pulire le scarpe dei grandi. Quanti fotogrammi ti passano davanti, adesso che guardi il prato martoriato dai tacchetti degli altri, da un football che bene o male dovrà andare avanti senza di te, anche se non sarà mai più la stessa cosa? Forse ripensi anche a quella mezza tavoletta di cioccolato che ti portavi nello spogliatoio, mentre un giocatore maturo come Bobby si faceva il suo bicchierino di scotch. Forse…
È passata più di un’ora, dalla fine della partita. Arriva un inserviente dello United, uno di quelli che ti hanno conosciuto quando eri un adolescente scheletrico di Belfast, che prometteva di diventare un genio, come aveva previsto Bob Bishop.
Chissà dove trova il coraggio per dirtelo…
– È ora di andare, George -.