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Lassù qualcuno mi ama: la vera Storia di Rocky Graziano
Apprezzato dal Presidente Harry Truman, omaggiato da Al Capone e fotografato mirabilmente da un giovanissimo Stanley Kubrick. La vita del boxeur Thomas Rocco Barbella, meglio conosciuto come Rocky Graziano, è una delle più belle e affascinanti della storia del pugilato.
Figlio unico di un famiglia di origini abruzzesi e siciliane, il piccolo Rocco crebbe nei bassifondi di Manhattan, ovverosia in quelle pericolose strade dell’East-Side di New York che all’inizio degli anni Trenta rappresentavano il borough più vivace, colorato e chiassoso della zona, un vero e proprio mosaico di popolazioni. C’erano tutti: irlandesi, tedeschi, cinesi e, ovviamente, tanti, tantissimi italiani che all’epoca venivano ancora offensivamente apostrofati come «dago» (dalla parola inglese dagger, pugnale, per la loro innata propensione a risolvere con una coltellata qualunque controversia) oppure come «wop», da cui la pronuncia italiana “guappo” poiché spesso privi di documenti di riconoscimento (w.o.p. = With Out Passport).
Rocco, che però già tutti avevano preso a chiamare Rocky, visse un’adolescenza in continua fuga dalla polizia, lontano dalla scuola e molto vicino, invece, ad alcuni suoi coetanei con i quali si rendeva protagonista di piccoli o grandi furtarelli, risse per strada ed estorsioni nei confronti di malcapitati. Tra questi ce n’era uno in particolare con il quale, presto, avrebbe condiviso anche le gioie sul ring: Giacobbe, che però tutti chiamavano Jake. Jake La Motta. Il futuro “Toro del Bronx”.
Continuamente dentro e fuori le prigioni minorili, un bel giorno il destino della sua vita cambiò durante una rissa in carcere. Mentre colpiva con tutta la sua forza un altro detenuto, la sua proverbiale violenza venne notata da una delle guardie (un ex procuratore di pugili), che gli disse qualcosa come: «Cosa ne dici di infilare quella dinamite in un guantone?». E da quel giorno nulla fu più come prima.
Da Rocco Barbella a Rocky Graziano
Un po’ a causa dei suoi turbolenti sospesi con la giustizia (gravava su di lui anche un’accusa di renitenza alla leva), un po’ per il conflittuale rapporto con il padre, agli inizi degli anni Quaranta, per salire la priva volta sul quadrato come pugile dilettante, si cambiò il nome in Rocky Graziano. Combatté il suo primo incontro da protagonista già nella primavera del 1942, contro un altro italoamericano, un “paisà” di nome Mike Mastandrea. Ma quella che lui avrebbe considerato la sua prima vera prova del fuoco, arrivò il 9 marzo del ’45 con Billy Arnold, un pugile afroamericano che deteneva un invidiabile record di trenta vittorie consecutive per k.o.
Sovvertendo alla sua maniera tutti i pronostici, la vittoria di Rocky arrivò dopo soli sei round. Il che non mancò di suscitare grande entusiasmo tra la folla del Madison Square Garden di New York. Tra i tanti spettatori entusiasti ce n’era uno in particolare che alla fine dell’incontro volle conoscere di persona Rocky. Si chiamava Harry Truman e dopo solo un mese sarebbe diventato il trentatreesimo Presidente degli Stati Uniti.
Tuttavia, quella non fu l’unica visita “di riguardo” che Rocky ebbe durante la sua pittoresca carriera di pugile. Un giorno, come ha raccontato nella sua biografia dal titolo Somebody down here likes me, too, alla fine di un altro match vincente, nel suo spogliatoio si presentò niente meno che Al Capone. Dapprima spaventato, il campione dei pesi medi fu subito rassicurato dal gangster che volle invece fargli addirittura dono di un preziosissimo anello di cinque carati. «Sono orgoglioso di te» gli disse “Scarface”, all’epoca in libertà vigilata dal carcere di Alcatraz. E quella fu una delle ultime volte che si fece vedere in giro, prima di finire i suoi giorni da ammalato in una clinica di Miami.
La trilogia con Tony Zale
A portare alla ribalta pugilistica l’ex poco di buono dei bassifondi di Manhattan, fino alla possibilità di giocarsi il titolo mondiale dei pesi medi, furono senz’altro le sue incredibili doti di lottatore animate da un infaticabile dinamismo e da un’eccezionale voglia di vincere.
Fin dal primo colpo di gong, Rocky Graziano si lanciava sull’avversario come se dovesse addirittura difendere la propria vita. Nessuno ha conservato un ricordo della sua tecnica sopraffina, anche perché ne era sprovvisto, ma il suo inimitabile stile di combattimento, mosso da un insanabile astio nei confronti degli avversari, era di un’innegabile potenza distruttiva. Sul ring dava l’impressione di essere un animale tenuto troppo tempo in gabbia e che, una volta fuori, era pronto ad assalire il primo che gli passava davanti. Graziano non boxava con i suoi avversari, li sommergeva sotto un diluvio di colpi micidiali di una potenza terrificante. Nei corpo a corpo si avventava a testa bassa, del tutto incurante se, combattendo in tal modo, avrebbe fatto esplodere l’arcata sopracciliare o uno zigomo a colui che in quel momento osava pararglisi davanti. Quanto poi a proteggersi, Rocky certo se ne preoccupava, ma non più di tanto. Avventarsi era il suo primo ed unico pensiero, tant’è che tutti lo chiamavano “The Rock”. Anche per questo, il boxeur italoamericano è ancora oggi considerato uno dei più famosi e illustri rappresentanti dei pesi medi, la categoria reputata insieme a quella dei massimi la regina della boxe.
Nel 1946 ebbe finalmente l’occasione di combattere per il titolo. Il suo avversario era il grande e temibile Tony Zale, pugile di origine polacca il cui vero nome era Antoni Florian Załęski. I due, insieme, diedero vita a una delle più famose trilogie della storia del pugilato. Tre grandissimi incontri, combattuti nel giro di due anni, che hanno fatto epoca.
Il polacco era un picchiatore e un incassatore senza pari, proverbiale per il suo sangue freddo e la sua impassibilità che mostrava sul ring e che gli era valsa il soprannome di “uomo d’acciaio”. Era talmente considerato un maestro dell’arte della boxe che a fine carriera sarebbe diventato anche un buon allenatore.
Tra i primi pugili che avviò al ring ce ne fu uno in particolare che si sarebbe distinto rispetto agli altri. Era un azero fuggito dall’Iran nel 1941 dopo che nel suo Paese l’atmosfera si era fatta molto tesa in seguito all’invasione anglo-sovietica, una gigantesca operazione militare finalizzata a creare un canale sicuro di rifornimenti e aiuti militari ai russi che nel frattempo stavano tentando di contenere l’avanzata nazista. Si chiamava Emmanuel B. Aghassian, era figlio di un armeno a sua volta scappato dal terribile genocidio di qualche anno prima, e in quel momento non poteva immaginare che a pochi chilometri da casa sua due anni dopo si sarebbero decise le sorti del pianeta con la celebre Conferenza di Teheran. Emmanuel sotto la guida di Zale vince il Golden Gloves (il guanto d’oro), ma parteciperà senza successo a due edizione delle Olimpiadi, quelle di Londra del 1948 e quelle di Helsinki del 1952. Prima di allora, però, una volta giunto a Chicago, aveva falsificato il proprio documento cambiando il proprio nome in Mike Agassi. Si era dunque presentato con questo pseudonimo alle sfortunate gare dei Giochi e lo mantenne anche dopo aver abbandonato la boxe per andare a lavorare al Caesars Palace di Las Vegas. Nella capitale mondiale dell’intrattenimento ci si sposerà, anche, e dal suo matrimonio nasceranno quattro figli che in seguito avrebbe cercato in tutti i modi di avviare allo sport. Ci riuscirà solamente con uno, il più piccolo, a cui avrebbe dato due nomi. Il secondo era Kirk — come Kirk Kerkorian, il magnate proprietario dei maggiori casinò di Las Vegas verso cui fu sempre riconoscente — e il primo era Andre. Non con i guantoni, ma con una racchetta da tennis in mano, presto avrebbe vinto tutto ciò che era possibile vincere; e tutto il mondo lo avrebbe conosciuto semplicemente come Andre Agassi.
Il primo incontro tra Rocky Graziano e Tony Zale, quello combattuto il 27 settembre 1946 allo Yankee Stadium di New York, raggelò tutti gli spettatori. La violenza dello scontro superò ogni limite concepibile e se Zale seppe trionfare su Graziano per k.o. al sesto round, secondo il parere di tutti, fu soltanto grazie a un colpo fortunato, quello che nella boxe viene chiamato lucky punch.
Zale, nonostante fosse dotato di una tecnica superiore a quella del proprio avversario, fu in qualche modo costretto ad adeguarsi alla boxe di Graziano contro cui l’unica possibilità era quella di battersi come se si lottasse per sopravvivere. Dunque talvolta poteva capitare di avere fortuna in quella gragnola di pugni. Questo però non capitava sempre.
Il 16 luglio 1947, infatti, quando Zale affrontò nuovamente Graziano a Chicago, fu lui, dopo un’orribile mischia, a subire questa volta il k.o. al sesto round. Lo spettacolo fu allucinante. I due pugili imbrattati di sangue, feriti al volto, sembravano prossimi all’agonia: fu certamente un grande momento della leggenda del pugilato. Rocky si mostrò formidabile, quasi terrificante. E nello scontro, Zale perse il titolo di campione del mondo dei pesi medi.
I due risalirono nuovamente sul ring, ancora una volta per contendersi il titolo, il 10 giugno 1948. Il terzo e ultimo match lo vinse Zale, ma durò solo tre round, come accade di solito negli incontri tra due dilettanti. Tuttavia, lo scontro raggiunse i vertici del parossismo. Ogni colpo, praticamente, avrebbe dovuto provocare un k.o.
Dopo questa sfida, Tony Zale si ritirò in seguito alla sua ultima sconfitta con Marcel Cerdan. Invece Graziano proseguì la sua carriera per altri quattro anni. Alla fine, su 83 combattimenti ne vinse 52 per k.o. e non subì che tre sconfitte, l’ultima delle quali contro Ray Sugar Robinson, il 16 aprile del 1952.
Una vita da film, la sua. E infatti nel 1956 la Metro-Goldwyn-Mayer decise di affidare la regìa per la riduzione sul grande schermo della sua storia a Robert Wise — che sei anni prima aveva già avuto modo di dirigere un altro film di successo sulla boxe, Stasera ho vinto anch’io — e con un cast d’eccezione: Paul Newman, Anna Maria Pierangeli, Sal Mineo e Steve McQueen. Il titolo sarebbe stato Lassù qualcuno mi ama, preso a prestito dalla battuta finale del film che Newman/Graziano rivolge alla moglie mentre tutti lo acclamano per il titolo appena conquistato, perché: «…Quello che ho vinto non possono togliermelo sul ring. Sono stato fortunato, lassù qualcuno mi ama!».
un chiarimento per l’autore dell’articolo. Gli italiani erano chiamati in maniera dispregiativa Daygo da “day goes”. All’epoca, (inizio secolo o piu’ probabilmente durante la grande depressione) gli emigranti, soprattutto italiani, andavano al porto per trovare lavoro (giornaliero) e quando arrivava il capo diceva che gli avrebbe pagati in base al lavoro della giornata. (we’ll see how day goes, tipo, dipende da quanto lavoro c’e’). la storia del pugnale non c’entra nulla…per una volta!
saluti
Sarebbe importante pubblicare delle informazioni accurate. Il boxing record dei Graziano fu 67 vittorie 10 sconfitte 6 pareggi.
Un grande articolo per una grande storia di uomini e di sport. Se poi alcune informazioni non sono accuratissime oppure sono opinabili, e se un dato risulta errato, sinceramente ha scarso peso in relazione ad una vicenda umana e sportiva cosi’ importante. Letto tutto d’un fiato.Bellissimo articolo.
Bellissima storia di vita, lo letta tutta, anni durissimi quelli, dove si sono plasmati grandi pugili che hanno fatto la storia di questo meraviglioso se pur duro sport. Ma uno sport che ti toglie dalla strada, ti fa scaricare ogni tipo di negatività che puoi accumulare nella vitae trasformarla in qualcosa di speciale dentro un ring dove nasce poi l’empatia con quel mondo che fuori pensavi ti ripudiasse. Mi ha colpito quella parte dove Al Capone regala l’anello a Graziano, e lui è spaventato da quella figura. Non doveva essere molto rassicurante averlo davanti manco per uno come Mike Tysons considerato il più cattivo del pianeta.