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Lars Lagerbäck, quando il gioco di squadra comincia in panchina

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Il ct dell’Islanda si è tolto le più grandi soddisfazioni della carriera sempre quando ha allenato insieme a un collega.

Può un allenatore rendere al meglio grazie a… un altro allenatore? Sì. Perlomeno se si chiama Lars Lagerbäck. Soffermandosi sulla carriera del sessantanovenne tecnico dell’Islanda sorpresa di Euro ‘16, si nota come abbia ottenuto i migliori risultati quando si è trovato ad allenare insieme a un collega.

Tipo il coetaneo e connazionale Tommy Söderberg, con il quale divise la panchina della Svezia dal 2000 al 2004. Ribattezzati dalla stampa locale “il tattico” e “il motivatore”, i due attuarono una perfetta suddivisione dei ruoli nel nome del medesimo interesse: spingere più in alto possibile i gialloblu. Se Söderberg si preoccupava che i giocatori esprimessero il massimo del loro potenziale, Lagerbäck curava schemi e movimenti. A ciascuno il suo, avrebbe detto Leonardo Sciascia. E i risultati dettero loro ragione. Al Mondiale nippo-coreano del 2002, la Svezia vinse un girone che la voleva eliminata in partenza (Argentina, Inghilterra, Nigeria), estromettendo addirittura i sudamericani di Bielsa dalla competizione, salvo poi arrendersi alla sorpresa Senegal negli ottavi di finale (miglior piazzamento dopo il bronzo di Usa ’94). Due anni più tardi, a Euro ’04, eliminò l’Italia (e il “biscotto” con la Danimarca è l’argomentazione preferita da chi guarda la pagliuzza nell’occhio altrui dimenticandosi la trave nel proprio) per poi fermarsi contro l’Olanda, soltanto ai rigori, nei quarti di finale, suo miglior piazzamento di sempre nella rassegna continentale.

Dopo quella manifestazione Lagerbäck rimase solitario al timone della nazionale, ma nel quadriennio successivo non eguagliò quei risultati. Idem quando allenò la Nigeria a Sudafrica 2010 e quando fu nominato commissario tecnico dell’Islanda: era il 2011, i vichinghi disputarono un ottimo girone di qualificazione per il Mondiale del 2014, ma ne rimasero fuori dopo i play-off. A quel punto la federazione decise di affiancargli Heimir Hallgrímsson, dentista nella vita di tutti i giorni e una passione viscerale per il calcio ben sintetizzata da una mimica facciale votata all’attacco.

Come un geyser delle Isole Vestmann, anche il nuovo binomio produsse una reazione a dir poco vulcanica: Islanda vincitrice del girone di qualificazione davanti a Repubblica Ceca, Turchia e un’Olanda nobile decaduta; Islanda che al suo primo Europeo blocca il Portogallo e se lo lascia alle spalle, qualificandosi agli ottavi con il 2-1 all’Austria dove estromette la favorita Inghilterra e conquista uno storico accesso ai quarti di finale.

Come da precedenti accordi, Lagerbäck ha lasciato il suo incarico al termine dell’avventura francese. E, considerata l’età, non è escluso un suo ritiro dalle scene calcistiche. Dove resta comunque la sua storia, che merita di essere raccontata perché in controtendenza rispetto la moda del tempo. Oggi è opinione diffusa che, per ottenere risultati di rilievo, un allenatore debba avere uno dei seguenti identikit. Quello di un santone che trasforma i brocchi in campioni (e l’acqua in vino quando ha un po’ di tempo libero) con un semplice sguardo o con la sola imposizione delle mani (argentini troppo “locos”). Quello di un caudillo che sobilla la folla durante le partite o spregia gli avversari in conferenza stampa (“zeru tituli”). Quello di un uomo solo al comando, sicuro dei suoi mezzi al punto che gli unici pericoli possono arrivare da un indefinito complotto alle sue spalle che lo rende una vittima designata (o “disegnata” secondo la versione di Maurizio Crozza…).

Lagerbäck ha dimostrato invece come un altro modo di allenare è possibile. Basato su un atteggiamento antidivistico della persona e un approccio alla professione che contempla la divisione dei compiti e la compartecipazione del ruolo perché utili alla causa collettiva. Da un certo punto di vista, una filosofia alternativa più in linea con la concezione ortodossa del calcio: uno sport di squadra dove ognuno si mette a disposizione dell’altro per raggiungere un obiettivo comune.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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