La Storia e il Giro: il Caleidoscopio dell’Italianità
E’ iniziato ieri il Giro d’Italia 2020, la mitica Corsa Rosa la cui storia, sin dalle origini, è intrecciata con quella italiana, percorrendo tutte le epoche che hanno caratterizzato il nostro Paese e assumendo significati che vanno ben oltre quelli sportivi.
Il 13 Maggio 1909 alle ore 2.53 del mattino partiva dal Rondò di Loreto (Piazzale Loreto) di Milano la prima tappa della prima edizione del Giro d’Italia con arrivo a Bologna. In 111 anni di storia molte cose sono cambiate ma lo spirito di fondo del Giro resta, e anno dopo anno si rivela sempre di più come un vero e proprio caleidoscopio dell’italianità.
Nel Giro, l’Italia rivede sé stessa: attraversando le sue strade la carovana rosa ammira i suoi paesaggi variegati e continuamente mutevoli, viene a contatto con il calore suscitato dal sempre affezionatissimo popolo del ciclismo e viaggia idealmente nella storia del nostro paese. Una storia con la quale il Giro si è in diverse occasioni trovato a contatto, trascendendo col passare dei decenni la dimensione della corsa ciclistica e raggiungendo quella del mito tutto italiano, della componente inscindibile della realtà nazionale. Una nazione che il Giro aiuta a cogliere nella sua altra innegabile realtà, quella di “strapaese” in cui il locale acquisisce una dimensione pari al globale, troppo spesso vista come concorrenziale o alternativa all’idea di nazione ma con la quale è in ultima istanza collegata, rappresentandone l’altra faccia della medaglia e il naturale completamento. Snodandosi attraverso migliaia di chilometri di strade italiane, dunque, il Giro acquisisce la funzione di trait d’union tra le varie componenti locali, unendole idealmente tra di loro al di sopra di campanilismi e rivalità di ogni sorta.
A testimonianza del forte vincolo instauratasi tra la storia del Giro e la storia d’Italia è doveroso ricordare lo straordinario ruolo giocato dalla corsa nella ricostruzione del morale del paese dopo il tragico vissuto della seconda guerra mondiale; nel 1946 il comitato organizzatore, presieduto da Bruno Roghi, direttore de “La Gazzetta dello Sport”, si scontrò con immani difficoltà logistiche, legate alla totale devastazione della viabilità italiana a seguito del conflitto, ma riuscì infine a disegnare un percorso allo stesso tempo competitivo e simbolico.
Gli italiani, che pochi giorni prima avevano decretato la fine della monarchia sabauda con lo storico referendum del 2 giugno, seguirono col fiato sospeso la corsa che prese il via il 15 giugno da Milano e si concluse, sempre nel capoluogo lombardo, il 7 luglio. Dalla Lombardia alla Campania, il Giro toccò tutte le regioni più sconvolte dal conflitto da poco conclusosi, il suo percorso si snodò fino a Napoli e i corridori lo affrontarono portandosi appresso la volontà di un paese stremato che anelava esclusivamente a ritornare alla normalità.
Le cronache del tempo raccontano di migliaia di spettatori assiepati a bordo strada per assistere al passaggio dei “girini” e pedalare idealmente al loro fianco, spinti dalla volontà di lanciarsi a tutta velocità loro stessi sulla strada che avrebbe condotto a un futuro migliore.
La corsa visse le sue ore più emozionanti nella città maggiormente simbolica per gli italiani della prima metà del Novecento, Trieste. Roghi si era speso in prima persona per l’inclusione della città, ai tempi aspramente contesa tra l’Italia e la Jugoslavia titina che ne reclamava l’annessione come compensazione dei danni patiti durante la guerra, nel tracciato del Giro ai fini di affermare in maniera inequivocabile la sua appartenenza all’Italia, alla quale si era unita dopo la prima guerra mondiale. Tra le squadre partecipanti, inoltre, figurava la Wilier Triestina, che sfoggiava le vistose alabarde simbolo della città sulla sua divisa ufficiale ed era capitanata da Giordano Cottur, desideroso di vincere la tappa che si sarebbe conclusa nella sua città natale.
Durante il suo svolgimento, tuttavia, un gruppo di facinorosi filo-titini sbarrò la strada alla corsa, tendendo un agguato ai corridori a colpi di sassi e spari isolati. Si scatenò il pandemonio, con i dimostranti decisi a impedire l’accesso del Giro a Trieste, le forze di sicurezza intervenute per calmare le acque e i corridori della Willer, con Cottur in testa, intenzionati a raggiungere comunque la città nonostante la compromissione della tappa dal punto di vista sportivo. Iniziò allora l’epica marcia di avvicinamento alla città dei corridori, che usufruirono del passaggio di una squadra di veicoli delle truppe americane e fecero il loro ingresso nella città che sin dalle prime ore di quel 30 giugno attendeva l’arrivo del Giro. Trieste visse ore meravigliose, narrate splendidamente da Roberto Degrassi nel suo libro “Trieste in maglia rosa”.
Così l’autore racconta gli attimi più importanti di quella sensazionale giornata:
“I ciclisti vengono sbarcati a Grignano per completare il percorso fino a Montebello. Barcola, viale Miramare, la gente ai bordi della strada è impazzita. Una sfilata fino all’ippodromo? Forse, o forse no. Cottur aveva un sogno la sera prima: arrivare primo al traguardo. Il gruppo capirà. Attacca dove aveva previsto, non è una rasoiata feroce, gli altri non reagiscono. Qualche decina di metri che gli basta per arrivare per primo a Montebello. Un trionfo. L’estasi. Non si poteva rinunciare a una gioia così.
Fiori, baci, occhi lucidi, applausi. Una città che diventa un infinito abbraccio per un uomo solo. Potenza dello sport: quell’omino lì in maglia alabardata sembra un gigante”.
Basterebbero le ultime due righe a dimostrare l’importanza giocata dal Giro d’Italia nella storia di quel fatidico 1946. A trionfare a Milano sarà Gino Bartali, che negli anni successivi sarebbe stato, assieme a Fausto Coppi e al Grande Torino, un mito umano ancor prima che sportivo per l’Italia intenta a ricostruire sé stessa.
Settantaquattro anni dopo, il Giro continua ad appassionare, a regalare emozioni e a portare sulle strade centinaia di migliaia di persone (quest’anno per il Covid saranno un bel po’ meno), il colorato e rumoroso “popolo del ciclismo” che contribuisce all’unicità di una corsa ultra centenaria, rimandata a ottobre per l’emergenza coronavirus, che passerà, a differenza di questo irrinunciabile appuntamento con il ciclismo ma anche e soprattutto con la storia. Il nostro amato Caleidoscopio dell’italianità.