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La scomparsa del GP di Germania in una F1 a rischio estinzione

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L’assenza dal calendario del 2017 del Gran Premio di Germania è un altro colpo pesante per il fascino della F1, già in crisi per via di gare troppo noiose e un regolamento tanto cervellotico quanto mutevole, ottimo giusto per disorientare gli appassionati. I quali, nella stagione che scatterà il prossimo 26 marzo, dovranno fare a meno di una corsa storica. Sia perché sempre presente tra gli appuntamenti iridati tranne che in due edizioni (1955 e 2015), sia perché la Germania è una delle madri costituenti dell’alta velocità automobilistica. È nei cieli di Stoccarda che brilla la stella a tre punte della Mercedes dominatrice degli ultimi tre campionati; in quelli di Monaco di Baviera troneggia invece la torre della BMW (der BMW-Türm), i cui motori negli anni Ottanta spinsero al trionfo la Brabham di Piquet. E come dimenticare che il pilota più vincente in assoluto, Michael Schumacher, sia nato a Colonia o che l’ultimo campione del mondo, Nico Rosberg provenga dall’Assia al pari di Sebastian Vettel. Per non parlare di circuiti come l’originario Nürburgring, la mitica e mitologica Nordschleife lunga ventidue chilometri, o il patriarcale Avus, teatro del primo gran premio teutonico (1926) e dove si è corso fino al crepuscolo degli anni Novanta.

Marchi, uomini, luoghi. In una parola, storia. Lunga quasi un secolo, ma alla quale, di colpo, per un mancato accordo economico tra gli organizzatori di Hockenheim e quelli del campionato del mondo, si è deciso di rinunciare. Una notizia sconfortante perché mina le fondamenta di questo sport, sacrificando una parte del suo patrimonio, cioè i suoi luoghi simbolo da tutelare e tramandare nel tempo, sull’altare degli sponsor e di sfide in imprecisate località del globo, utili perlopiù ad accentuare il disinteresse degli appassionati, che sentono la F1 come un’entità sempre più lontana e distante da loro perché sempre più diversa da come erano abituati a vederla.

Anche perché quanto successo alla Germania non è che l’ultimo atto di un processo di perdita che ha investito molte altre piste dove si è costruita parte della storia delle corse. Nei decenni, si è rinunciato a Zandvoort e alla sua temibile curva Tarzan, non si è valorizzata la Digione del duello Villeneuve-Arnoux, si son salutati i cambi di pendenza di Brands Hatch, si è detto addio a Kyalami, si son voltate le spalle a Watkins Glen e non ci si sono spellate le mani per Imola. Tracciati che esaltavano l’aerodinamica delle vetture e il coraggio dei piloti, tracciati che mettevano a dura prova la resistenza della meccanica e la tenuta delle gomme, tracciati che svelavano l’identità della F1: una sfida sempre alla ricerca del limite che stregava il pubblico.

Oggi, al posto di siffatti scenari, asettiche ambientazioni molto orientali (Medie ed Estreme) e poco emozionali – tranne Suzuka, comunque in calendario dal 1987, quando per correre serviva ancora il pelo sullo stomaco – che nel 2013 presero addirittura il sopravvento su quelle europee (8 a 7), certificando il trionfo della F1 odierna: business e diritti tv al primo posto, valori tecnici al secondo. Una classifica che, se rovesciata, con i circuiti storici punti fermi intorno ai quali costruire lo spettacolo, garantirebbe un ritorno economico ancora maggiore perché, grazie proprio a quel loro fascino impensabile per autodromi a latitudini tropicali, i templi della velocità richiamerebbero molta più gente, curiosa di vedere le gesta di Verstappen, Hamilton, Vettel e Alonso laddove si affrontarono Andretti, Lauda, Regazzoni, Fittipaldi, Villeneuve, Alboreto, Prost e Senna.

D’accordo, il mondo cambia e con lui anche la F1. Ma evoluzione non significa cancellazione e uno sport senza memoria è come una società che rinuncia al suo passato: non avrà futuro. Esisterà, ma interesserà sempre meno persone finché, se non si apporteranno dei correttivi, arriverà a una sua completa autoreferenzialità o, nella peggiore delle ipotesi, a una sua estinzione. L’attuale F1 è su questa strada e per recuperare un appeal ai minimi storici non può bastare la presenza di un mito come la Ferrari, se poi, oltre a una guida agevolata per i piloti e a una competizione sportiva controllata da norme rigide (come l’obbligo di montare in gara almeno due mescole differenti di pneumatici) si preferisce gareggiare su piste buone giusto per riproporre un programma televisivo di qualche anno fa: meteore.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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