“La Guerra meno lo sparo”: la stroncatura dello Sport secondo George Orwell
Il 21 gennaio 1950 ci lasciava lo scrittore inglese Eric Arthur Blair, da tutti conosciuto con il soprannome di George Orwell. Egli è stato l’autore di alcuni capolavori letterari, conosciuti a livello mondiale, quali “Omaggio alla Catalogna”, “1984” e “La Fattoria degli Animali”.
Tra le varie tematiche trattate durante la sua vita, Orwell si interessò anche a quella legata all’ambito sportivo, pur non avendo mai praticato alcun sport a livello agonistico. Tale indagine venne portata avanti descrivendo uno sport in particolare: il calcio.
Tutto questo nonostante George Orwell non fosse un appassionato del mondo del pallone. Nel descrivere lo spirito calcistico, infatti, lo scrittore non fece venire meno quella lucida polemica anticonformista che ha caratterizzato molti dei suoi romanzi.
Orwell cercò, tra le altre cose, di sfatare un tabù in particolare: quello che vedeva il gioco del calcio come un modo “alternativo” per generare fratellanza, solidarietà e altruismo tra i popoli. Lo scrittore mise ben in chiaro il suo punto di vista grazie ad un articolo intitolato “The Sporting Spirit” e pubblicato, il 14 dicembre 1945, sul settimanale “Tribune”: giornale con un chiaro orientamento social-democratico.
Nello specifico, secondo l’autore di 1984, affermò: “Lo sport serio non ha nulla a che fare con il fair play, è legato all’odio e alla gelosia, alla vanagloria, all’inosservanza di tutte le regole e al sadico piacere della violenza inutile. In altre parole è la guerra meno lo sparo”. Una visione, per alcuni, troppo cupa e senza anima che però, a parere di chi scrive, fa vedere chiaramente lo spirito introverso e solitario del grande scrittore.
A quel tempo (e noi possiamo aggiungere tuttora), infatti, non si giocava con uno spirito di unione che, nel mondo antico, aveva caratterizzato lo svolgimento di alcuni eventi sportivi molto importanti come le Olimpiadi. Lo scrittore fa notare che “quasi tutti gli sport praticati oggi sono agonistici. Si gioca per avere la meglio sull’avversario, e l’incontro ha scarso significato se non si fa il massimo sforzo per vincere”.
Per arrivare alla vittoria finale, ci spiega Orwell, viene accettato qualsiasi mezzo. Sia quelli “moderati” che rientrano, a pieno titolo, nelle regole prestabilite ma anche quelli più estremi come, ad esempio, gli insulti agli avversari.
Il pamhplet “The Sporting Spirit” venne scritto in una occasione ben precisa. Nel 1945, pochi mesi dopo la fine ufficiale del secondo conflitto mondiale, la Dinamo Mosca, il team calcistico più vicino al ministero dell’Interno russo, fece un tour di partite in alcuni dei più importanti stadi inglesi.
Essa fu la prima squadra dell’Est che organizzò una trasferta del genere e, nel periodo passato nella Terra di Sua Maestà, disputò ben 4 incontri. Orwell, in particolare, prese spunto dal match tra la Dinamo e l’Arsenal. Tutto ciò avvenne nonostante russi ed inglesi non si trovavano per niente d’accordo su determinate posizioni politiche.
Riportiamo, di seguito, l’articolo integrale di Orwell tradotto:
“Ora che la fugace visita della squadra di calcio della Dinamo è giunta al termine, è possibile esprimere pubblicamente ciò che molte persone assennate già dicevano in privato prima dell’arrivo della Dinamo: ovvero che lo sport è motivo incessante di ostilità, e che se una visita del genere ha avuto un qualche effetto sulle relazioni anglo-sovietiche, è solo nel senso di renderle leggermente peggiori di prima.
Nemmeno i quotidiani sono stati in grado di mascherare il fatto che almeno due dei quattro incontri disputati hanno suscitato molta animosità. Durante la partita dell’Arsenal – mi è stato riferito da qualcuno che era presente – un calciatore britannico e uno russo sono venuti alle mani e la folla ha espresso disapprovazione nei confronti dell’arbitro. La partita di Glasgow – mi ha informato un altro spettatore – è stata nient’altro che una baraonda sin dall’inizio. E poi c’è stata la polemica, così tipica della nostra epoca nazionalistica, sulla composizione della squadra dell’Arsenal. Era davvero una squadra rappresentativa di tutta l’Inghilterra, come sostenevano i russi, o solo una squadra del campionato inglese, come sostenuto dai britannici? E la Dinamo ha posto termine bruscamente alla propria tournée per evitare di affrontare una squadra rappresentativa di tutta l’Inghilterra? Come al solito, ognuno risponde in base alle proprie preferenze politiche. Non tutti, comunque. Ho notato con interesse, a riprova delle feroci passioni che il calcio suscita, che il corrispondente sportivo del filorusso «News Chronicle» ha sposato la posizione antirussa e ha dichiarato che l’Arsenal non è rappresentativo dell’Inghilterra. Certamente, la polemica ricorrerà per anni tra le note a piè di pagina dei libri di storia. Nel frattempo, le conseguenze della tournée della Dinamo, se ci sono state, avranno creato nuova ostilità da entrambe le parti.
E come potrebbe essere altrimenti? Rimango sempre esterrefatto quando sento dire che lo sport genera amicizia tra le nazioni, e che se solo la gente comune dei popoli di tutto il mondo potesse incontrarsi su un campo di calcio o di cricket, non avrebbe alcun desiderio di incontrarsi su un campo di battaglia. Anche se non fosse già chiaro da esempi concreti (i Giochi Olimpici del 1936, ad esempio) che le competizioni sportive internazionali provocano orge di livore, lo si potrebbe capire da alcuni principi generali.
Quasi tutti gli sport praticati oggi sono agonistici. Si gioca per avere la meglio sull’avversario, e l’incontro ha scarso significato se non si fa il massimo sforzo per vincere. Al parco del paese, dove si sceglie in quale squadra giocare senza farsi prendere da sentimenti di patriottismo locale, è possibile gareggiare per divertimento e per fare dell’attività fisica. Ma non appena fa capolino la questione del prestigio, non appena si avverte che, in caso di sconfitta, il disonore ricadrà su di sé e su una entità superiore, si scatenano gli istinti aggressivi più brutali. Chiunque abbia giocato anche solo una partita di calcio a scuola è consapevole di questo fenomeno. A livello internazionale, lo sport, per dirla francamente, è un combattimento simulato. Ma ciò che è significativo non è la condotta dei calciatori, ma l’atteggiamento degli spettatori; e, al di là degli spettatori, delle nazioni che vanno su tutte le furie a causa di queste assurde competizioni, e credono seriamente — almeno per brevi periodi — che correre, saltare e dare calci a una palla siano una prova di virtù nazionale.
Perfino un gioco tranquillo come il cricket, che richiede grazia più che forza, può suscitare molto attrito, come è apparso evidente dalla polemica sulla strategia del bodyline e sulle tattiche rudi della squadra australiana che visitò l’Inghilterra nel 1921. Il calcio, uno sport in cui tutti si fanno male e ogni nazione ha il suo stile di gioco che sembra sleale agli stranieri, è molto peggio. Ma lo sport peggiore di tutti è il pugilato. Uno degli spettacoli più orrendi al mondo è assistere a un combattimento tra un pugile bianco e uno di colore davanti a un pubblico misto. Il pubblico di un incontro di pugilato è sempre disgustoso, e la condotta delle donne, in particolare, è tale che l’esercito, credo, non permette loro di assistere alle proprie competizioni. In ogni modo, due o tre anni fa, in occasione di un torneo di pugilato tra le Home Guards e le truppe regolari, fui piazzato di guardia all’ingresso con l’ordine di tenere lontane le donne.
In Inghilterra, l’ossessione per lo sport è radicata, ma nelle nazioni più giovani, dove gare di squadra e nazionalismo sono entrambe acquisizioni recenti, esso genera passioni ancora più violente. In paesi come l’India o la Birmania, durante le partite di calcio, è necessario formare solidi cordoni di polizia per impedire alla folla di invadere il campo. In Birmania, ho visto i sostenitori di una squadra farsi largo tra la polizia e mettere fuori gioco il portiere della squadra avversaria nel momento cruciale della partita. In Spagna la prima grande partita di calcio fu giocata circa quindici anni fa e provocò una rissa incontenibile. Non appena emergono forti sentimenti di rivalità, la decisione di giocare secondo le regole viene sempre meno. La gente vuole vedere una squadra vittoriosa e l’altra umiliata, e dimentica che la vittoria ottenuta barando o grazie all’intervento della folla non ha alcun valore. Anche quando gli spettatori non intervengono fisicamente, essi cercano di influenzare l’incontro incoraggiando la propria squadra e demoralizzando i giocatori avversari con fischi e insulti.
Lo sport serio non ha niente a che fare con il fair play. È un miscuglio di odio, gelosia, vanagloria, inosservanza di ogni regola e piacere sadistico di assistere a manifestazioni di violenza: in altre parole è la guerra senza i proiettili. Invece di blaterare della sana e pulita rivalità calcistica e della grande parte avuta dai Giochi Olimpici nel ricongiungere le nazioni, è più utile chiedersi come e perché sia nato il culto moderno dei giochi. La maggioranza dei giochi a cui oggi ci dedichiamo ha origini antiche, ma lo sport non sembra essere stato preso molto sul serio tra l’epoca romana e il diciannovesimo secolo. Nelle scuole pubbliche inglesi, il culto dello sport non ha avuto inizio se non nella seconda parte dell’ultimo secolo. Il dr. Arnold, generalmente considerato come il fondatore della moderna scuola pubblica inglese, considerava i giochi come una mera perdita di tempo. Poi, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, i giochi sono diventati attività in grado di attirare massicci finanziamenti ed enormi folle e di suscitare passioni selvagge, e il contagio si è diffuso da una nazione all’altra. A diffondersi maggiormente sono stati gli sport più violenti e competitivi: il calcio e il pugilato. Non vi è dubbio alcuno che questo fenomeno sia legato alla nascita del nazionalismo, ovvero alla dissennata abitudine moderna di identificarsi con grandi centri di potere e vedere tutto in termini di prestigio competitivo. Inoltre, è più probabile che i giochi organizzati fioriscano nelle comunità urbane dove le persone vivono, in genere, una vita sedentaria o comunque limitata e non hanno molte opportunità di svolgere un lavoro creativo. In una comunità rurale, il ragazzo consuma gran parte della sua energia in eccesso camminando, nuotando, tirando palle di neve, arrampicandosi sugli alberi, cavalcando e dedicandosi a vari sport che prevedono atti crudeli contro gli animali, come la pesca, il combattimento tra galli e la caccia ai ratti. In una grande città, è necessario dedicarsi ad attività di gruppo se si vuole dare sfogo alla propria energia fisica o ai propri impulsi sadici. I giochi sono presi sul serio a Londra e a New York, e furono presi sul serio a Roma e a Bisanzio. Nel Medioevo erano praticati, e probabilmente praticati con molta durezza fisica, ma non avevano niente a che fare con la politica né erano motivo di odio tra i gruppi.
Se si volesse incrementare l’enorme riserva di ostilità esistente nel mondo in questo momento, non ci sarebbe nulla di meglio che organizzare una serie di partite di calcio tra ebrei e arabi, tedeschi e cechi, indiani e britannici, russi e polacchi, italiani e jugoslavi, assicurandosi che a ogni incontro assista un pubblico misto di 100.000 spettatori. Non intendo dire, ovviamente, che lo sport sia una delle cause principali della inimicizia tra le nazioni; lo sport su larga scala è esso stesso, credo, meramente un altro effetto delle cause che hanno prodotto il nazionalismo. Però, non si migliorano di certo le cose se si manda una squadra di undici uomini, designati campioni nazionali, a battersi contro una squadra rivale, e si lascia credere a tutti che la nazione sconfitta “perderà la faccia”. Spero, quindi, che non daremo seguito alla visita dei calciatori della Dinamo inviando una squadra britannica in Unione Sovietica. Se proprio dobbiamo farlo, inviamo una squadra di secondo piano destinata a sicura sconfitta, che nessuno potrà definire rappresentativa della Gran Bretagna nel suo complesso. Ci sono già abbastanza cause reali di problemi per aggiungerne altre, incoraggiando dei giovani a darsi calci sugli stinchi tra gli strepiti di spettatori inferociti ”. Tribune 14 Dicembre 1945
Quello che è stato evidenziato sopra, a parere di chi scrive, fa avvicinare molto la figura di Orwell a quella di Valerio Marchi, altra storica figura che si interessò molto all’ambito calcistico trattandolo, soprattutto, da un punto di vista sociologico. Ma questa è un’altra bellissima storia che, chissà, magari vi racconteremo in qualche altro articolo…