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La fine della Novese, Campione d’Italia quando si giocava “per rabbia e per amore”

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Cronaca di una morte annunciata. I media locali hanno addirittura scomodato Gabriel Garcia Marquez per commentare la fine della Novese, radiata dal calcio italiano per inadempimenti finanziari. Per quattro volte consecutive, dall’inizio della stagione, i biancocelesti, militanti nell’Eccellenza Piemonte-Valle d’Aosta, non sono stati in grado di presentarsi al campo il giorno della partita e ne sono stati estromessi. Così a Novi Ligure, dopo novantasette anni, il calcio è giunto al capolinea. E solo all’apparenza questa può sembrare una delle tante e tristi storie di cattiva amministrazione economica di una società di calcio, perché la Novese è uno dei sedici club italiani che nella loro storia possono vantarsi di aver vinto almeno uno scudetto.

Era il 1922, ancora non c’era la serie-A a girone unico (sarebbe iniziata nel ’29-30), ma in Italia già esistevano il campionato di calcio e la FIGC. Che nell’estate precedente, in un Paese ancora lacerato dal primo conflitto mondiale, fu abbandonata da numerose squadre le quali, capitanate dalle “big” del periodo (Pro Vercelli, Genoa, Milan, Inter), dettero vita a un torneo parallelo per la mancata approvazione del “progetto Pozzo”, un’idea del futuro ct bicampione del mondo di riformare i campionati riducendone il numero (enorme) delle partecipanti.

In pratica, in quella stagione si disputarono due competizioni ufficiali. Se in quella degli “scissionisti” (la CCI) esultò la Pro Vercelli, in quella federale, giocata su due fasi da quarantasette squadre, la Novese prima si aggiudicò il girone regionale (tra le avversarie ancora esistenti si annotano Valenzana e Biellese), poi prevalse sul Petrarca Padova (che, coincidenza della vita, ha chiuso la sua attività nel 2016) e sulla Pro Livorno (netto 5-2) nel girone di semifinale, per giungere all’atto conclusivo contro la Sampierdarenese, antenata della più conosciuta Sampdoria.

Una sfida interminabile. In sette giorni, 0-0 sia a Genova che a Novi Ligure. Decisivo quanto inevitabile, lo spareggio. Che si tenne a Cremona, il 28 maggio, data poi passata alla storia del calcio per altre sfide epiche. E senza volerlo anche Novese-Sampierdarenese fu qualcosa d’omerico. Al novantesimo, 1-1 con reti di Neri e Mura. Si andò ai supplementari e al crepuscolo della seconda frazione Gamabrotta realizzò il gol della vittoria per il primo e unico trionfo della storia biancoceleste, che quel giorno trasfigurò in eroi i seguenti uomini: Strizel; Vercelli, Grippi; Bonato (Cevenini I), Bertucci, Toselli; Gambarotta, Neri, Santamaria, Cevenini III, Asti (Parodi).

Pochi anni dopo quel titolo però la Novese, complice l’introduzione del girone unico, scivolò in serie-B e, più tardi, in serie-C. Dove rimase fino al 1974. Da quel momento, la discesa nei dilettanti, dove ha oscillato tra serie-D ed Eccellenza fino al recente epilogo.

Amaro e triste perché con la fine della Novese sparisce un piccolo pezzo di storia del nostro calcio. Il suo tricolore ha valore analogo a quello della Sampdoria (1991), di un’altra nobile decaduta come il Casale (1914) o a quelli conquistati in quel periodo da Juventus, Milan e Inter. Realtà come quella biancoceleste non dovrebbero scomparire dalla geografia del calcio italiano perché ne hanno scritto parte della sua storia, in questo caso delle sue origini, di quando si giocava “per rabbia e per amore” (e lo stadio dei biancocelesti è intitolato a uno dei protagonisti di quella canzone, Costante Girardengo) e il loro valore andrebbe custodito e valorizzato nel tempo.

Certo, la FIGC non può legiferare provvedimenti speciali a tutela di quei club titolati e oggi caduti nel dimenticatoio (per esempio, il Vado vincitore sempre nel 1922 della prima coppa Italia), ma potrebbe intraprendere iniziative tipo mostre o rassegne celebrative per tenerne viva la memoria e ricordare, specialmente a quei soggetti che vogliono investire, come in questo sport la ricchezza più grande non sia ciò che si andrà a introitare, ma ciò che si eredita ogniqualvolta se ne entra a far parte: la passione.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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