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La figuraccia Mercedes tra appelli ritirati e il non saper perdere

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La figuraccia Mercedes tra appelli ritirati e il non saper perdere

Se tre indizi fanno una prova, ora abbiamo una certezza: alla Mercedes non sanno perdere. Alla sconfitta in pista e ai mancati complimenti ufficiali nel dopogara a Max Verstappen, si aggiunge il dietrofront nel momento di tradurre in azione le minacce lanciate ad Abu Dhabi dal loro team principal, il teatrale Toto Wolff.

Non contento dei due reclami respinti domenica sera dai commissari, che non avevano ravvisato infrazioni regolamentari nelle fasi finali della corsa, e infuriato per aver perso il titolo mondiale a poche curve dalla fine, colui al quale Bernie Ecclestone ha auspicato “un Oscar per la recitazione” aveva ammonito che non era ancora finita e che la Mercedes avrebbe fatto appello al Tribunale della FIA (Federazione Internazionale dell’Automobile, la massima istituzione mondiale dell’auto) per vedersi riconoscere quanto le sarebbe spettato. Cioè la vittoria finale. L’intenzione era abbastanza chiara. Ribaltare il risultato sportivo davanti ai giudici, per poi vantarsi di un campionato conquistato in un’aula di tribunale. De gustibus avrebbero detto gli antichi, ma tanto era. Al punto da far disertare a Lewis Hamilton la rituale conferenza stampa dopo il podio e silenziare i propri canali social per quattro giorni.

Si arrivava così a giovedì 16 dicembre, termine ultimo per presentare il temibile e temutissimo ricorso. Sennonché che succedeva? Giunta al redde rationem, dove bisognava passare dalle parole ai fatti, la Mercedes ha ingranato la retromarcia. Basta, non se ne fa più nulla, va bene così. E già qui ce ne sarebbe a sufficienza per indossare una riccioluta parrucca arancione, un finto naso rosso o blu, incipriarsi le guance, rosseggiarsi le labbra e scoppiare a ridere. Ma come? Ti presenti all’ultimo appuntamento della stagione con due tra i migliori avvocati del Regno Unito nel box per tutelarti da eventuali scorrettezze ai tuoi danni (a proposito, complimenti per la fiducia verso gli steward); durante il gran premio tratti il direttore di gara come fosse l’ultimo dei tuoi sottoposti; dopo la bandiera a scacchi manca poco che dichiari guerra a tutto il motorsport e poi, in meno di cento ore, ci hai già ripensato e cambi completamente idea, accettando tutto quello che ti è successo? Ma cos’è? Uno scherzo?

E invece no. Tutto vero. A Brackley fanno sul serio. Ma non solo. Il meglio doveva ancora venire. Già perché come hanno motivato la loro scelta? Come un gesto di amore nei confronti dello sport. «Se fossimo andati alla corte avevamo prove tali da vincere. Non l’abbiamo fatto perché riteniamo che lo sport vada messo al primo posto e che, se anche se avevamo ragione, nessuno ci avrebbe restituito il risultato, c’è differenza fra l’avere ragione ed avere giustizia. È stato molto difficile scegliere di non presentare l’appello» ha dichiarato l’istrionico Toto nella conferenza stampa di giovedì.

A questo punto le risate contagerebbero tutto il pubblico sotto al tendone. Perché il sempre sottile confine tra superbia e farsa spesso dà vita al grottesco. Se per la casa della Stella contasse prima di tutto lo sport, avrebbe agito in tutt’altra maniera. Tanto per cominciare, domenica si sarebbe subito complimentata pubblicamente con Verstappen invece di incapriccirsi come un bambino delle elementari che, siccome ha perso, allora batte i piedi e strepita che “non è giusto, uffa! Avete imbrogliato, ora lo dico alla maestra!”. Dopodiché Wolff, invece di fare l’azzeccagarbugli con i commissari, avrebbe fatto meglio a rivolgere un appello alle altre scuderie per chiedere ufficialmente alla FIA di semplificare nel 2022 un regolamento troppo cavilloso, fonte quest’anno di recriminazioni da parte di più squadre. Questo avrebbe voluto dire “mettere lo sport al primo posto”. Perché chi ama lo sport, prova a migliorarlo indipendentemente dai propri interessi di bottega.

Tra l’altro, così facendo alla Mercedes sarebbero usciti da questa bruciante ed epocale sconfitta non alla grande, ma alla grandissima. Perché avrebbero dimostrato di essere dei campioni. Cioè gente abituata a vincere, ma che riconosce il merito dell’avversario quando ha la meglio. Invece, più che degli sconfitti, hanno fatto la figura di quelli che non sanno perdere. E che non hanno nemmeno la decenza di scusarsi per aver esagerato con atteggiamenti incompatibili con la dimensione agonistica di una competizione. Anzi, hanno pure rincarato la dose. Perché né Wolff e né Hamilton giovedì sera si sono presentati alla cerimonia di premiazione della FIA a Parigi, alla quale i primi tre piloti della classifica per regolamento sono obbligati a partecipare.

Ma d’altronde stiamo parlando della stessa Mercedes che ancora Ecclestone accusò di rapporti stretti con uomini della Federazione per realizzare gli attuali motori ibridi ben prima della loro entrata in vigore (2014). In questi otto anni ha vinto altrettanti titoli costruttori e sette titoli piloti ed è stata – specialmente le prime tre stagioni – anni luce avanti alle altre scuderie. Tanto che il mondiale è stato quasi sempre affar suo. Quando non ha vinto Hamilton, l’ha fatto Nico Rosberg (2016). La Ferrari provò a inserirsi nel 2017 e nel 2018, ma dopo l’estate andò sempre ko.

Probabilmente, l’ubriacatura da trionfi (111 vittorie su 160 gran premi) ha portato Wolff&co. a illudersi che la Formula-1 fosse cosa loro. Forse avevano scritto “Non avrai altro vincitore all’infuori di me” sulle pareti del box e ora sono in preda a uno stato confusionale perché non riescono ad accettare di essere stati battuti da uno che è stato più bravo e che, soprattutto, non guida la macchina più forte. Cioè la loro (Mercedes ha vinto il Mondiale Costruttori). Proprio in questo ossimoro, specchio di una delle bellezze di questo sport, alberga il trauma dello shock. Verstappen ha mandato in frantumi la cristalleria della loro presunta invincibilità, dimostrando che, nell’odierna e iper-ingegnerizzata Formula-1, l’Uomo può affermarsi anche senza la monoposto migliore.

Un ragionamento inconcepibile per chi fa della supremazia tecnologica un assioma di vita. L’ultimo giro di Abu Dhabi ha sgretolato queste sue certezze, scaraventandolo all’improvviso in mezzo a quella normalità che non credeva più gli appartenesse. Per settimane avrà gli incubi di “Curva 5” e gli servirà del tempo per riprendersi. Perché riscoprirsi umano – quindi debole, fragile e battibile – nello spazio di novanta secondi, fa male. Molto. E passa del tempo prima di guarire. Ma se non si sa perdere, il dolore può anche rimanere. A lungo. E talvolta per sempre.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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