E’ inutile negare che il basket nazionale vive un momento difficile alla luce degli alterni risultati della nazionale tra europei mediocri, mancate qualificazioni mondiali, olimpiche e rassegne continentali per club che ci vedono fanalino di coda per numero di partecipanti e per risultati. Questo il dato odierno, ma riavvolgendo il nastro del passato recente la nostra tradizione nella palla a spicchi è sempre stata in bilico tra il medio e l’alto livello grazie a generazioni intere di talenti che hanno contraddistinto il nostro glorioso palmares a cavalo tra gli anni ottanta e la fine dei novanta, per culminare con lo storico argento olimpico di Atene 2004 targato Charlie Recalcati. Da li in poi il buio e un’involuzione senza precedenti che coinvolge a tutti i livelli il settore tecnico e una crisi generale che nel mondo dello sport vede una cronica mancanza di ricambio generazionale. Ne abbiamo parlato con Riccardo Pittis, venti anni da professionista tra Milano e Treviso e un palmarés che parla da solo: 7 scudetti, 6 coppe italia, 3 supercoppe italiane a livello nazionale e 2 coppe dei campioni, 2 coppe Korac e 1 Saporta Cup in Europa al quale va aggiunto l’argento all’europeo italiano del 1991. Atleta esemplare fuori e dentro dal campo, attualmente commentatore tecnico di Raisport e profondo conoscitore delle complesse dinamiche interne dell’italia del cesto.
Riccardo buongiorno, partiamo dalla situazione attuale del nostro movimento: convalescenti o malati cronici?
E’ un momento estremamente complicato, il malato è grave e la malattia è rara e difficile da curare in questo momento. Soluzioni a breve impossibili da trovare, andrebbe fatto un piano Marshall senza cercare tamponi, qui vanno ricostruite le fondamenta del movimento con un grande lavoro di base che da qui a dieci anni speriamo dia i suoi frutti.
Domanda d’obbligo, anche se banale. E’ colpa della globalizzazione cha ha aumentato a dismisura il numero degli stranieri? Ai tuoi tempi c’erano solo due stranieri, oggi si fa fatica a trovare due italiani in un roster.
Sì sicuramente anche questo eccesso di stranieri è una della cause, ma non basta per giustificare la nostra triste situazione, perché per esempio anche in Spagna con le stesse regole la nazionale è sempre al top. I problemi sono vari e riconducibili a più concause, il paragone coi miei tempi è improponibile, ma il dato di fatto è che oggi faccio fatica a trovare tre giocatori italiani che facciano la differenza nei loro club di appartenenza, dato preoccupante se pensiamo che le regole non possono essere cambiate e che la competitività delle coppe internazionali fa si che sia impossibile strutturare un club con l’obbligo di schierare un numero fisso di italiani.
Il ricambio generazionale, problema cronico del nostro sport odierno. Come ne usciamo?
Per quanto riguarda il basket uno dei problemi generazionali è sicuramente riconducibile al forte impatto che ha avuto la pallavolo nei favolosi anni novanta, una ribalta internazionale altissima che ha drenato talenti potenziali al movimento cestistico. Va fatto innanzitutto reclutamento e va ristrutturato anche il metodo d’insegnamento del basket che negli anni è diventato sempre più fisico cosa che ci penalizza non poco.
Pittis come ha iniziato a giocare a basket, pensavi di diventare un professionista?
Fin da bambino a sette anni ho iniziato a giocare con l’ambizione di diventare bravo, andavo a scuola poi c’era solo il basket che occupava il tempo residuo. L’amore per questo sport e il fisico adeguato sono state le mie fortune a cui si è aggiunto il privilegio di giocare per l’Olimpia Milano con tutta la trafila giovanile e l’ingresso precoce in una prima squadra di altissimo livello. Ho imparato molto da campioni come D’Antoni, Mc Adoo, Premier, Meneghin e tanti altri, sono la stati la mia palestra di vita che mi ha formato indirizzando la mia carriera.
Com’e cambiato il basket oggi? Ti piace quello che vedi e commenti su Raisport?
E’ ovviamente cambiato, la fisicità e la velocità sono aumentate esponenzialmente e i 24 secondi hanno accelerato le esecuzioni, ma l’aspetto tecnico è venuto un po’ meno e questo mi piace un po’ meno. Commentarlo in diretta per la Rai è un onore e un qualcosa che sento nelle mie corde, sicuramente è più facile di giocare, qui invece prevale l’aspetto ludico e il non coinvolgimento che ti da quel distacco piacevole e la possibilità di incontrare tanta gente di più generazioni che ti riconosce come punto di riferimento.
Il rapporto con la nazionale è cambiato? E’ più una seccatura che un onore?
Non lo credo affatto, le mie sensazioni avendo fatto per tre anni il team manager per la nazionale vanno in tutt’altra direzione. I ragazzi hanno un grande considerazione e attaccamento alla maglia e chi ne resta fuori non è mai felice di non farne parte.
La tua Milano, gioie e dolori?
Milano quest’anno sembra avere fondamenta più solide dell’anno scorso, ma per competere ed ambire alla vittoria in Europa il budget di Armani non basta e questo è un dato di fatto. In Italia si potrebbe in teoria dominare perché il roster è superiore, ma gli impegni internazionali da un lato e la consapevolezza che le altre squadre hanno della non imbattibilità di Milano hanno fatto si che ciò che sulla carta è già scritto non sia affatto scontato sul campo.
Un messaggio ai giovani: lasciate lo smartphone e andate al campetto sotto casa?
Magari, ma è inutile pretendere di deviare il corso naturale di una generazione che viva di social e smartphone, l’unica cosa che posso dire è che la realtà è molto meglio della virtualità e che lo sport è più divertente. Almeno provate dandovi degli stimoli, gli stessi che avevamo noi quando il pomeriggio ci fiondavamo a giocare sotto casa al campetto. E’ dura lo so, ma non bisogna mai smettere di sognare.