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La coppa fantasma: quella finale tra Udinese e Atalanta senza trofeo…

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La coppa fantasma: quella finale tra Udinese e Atalanta senza trofeo…

La coppa fantasma. Fin dal giorno della sua assegnazione. Dove nessuno la vide e nessuno la alzò. Senza mai sapere il perché. Quel che sembra l’incipit di un racconto di Osvaldo Soriano ambientato sui campi di periferia di una ferruginosa metropoli sudamericana degli anni Sessanta, è in realtà una storia vera, narrata sul manto erboso di due nostre città di provincia, Bergamo e Udine, nel marzo 1993.

Protagoniste, le formazioni “Primavera” di Atalanta e Udinese, finaliste della Coppa Italia, la seconda competizione nazionale per importanza. Vi erano arrivate con trame di genere opposto. Epica quella dei bianconeri, incubo dei sognatori di S. Siro tra ottavi di finale e semifinali: 1-0 al Milan in trasferta (1-1 al ritorno) e 1-0 all’Inter al vecchio stadio “Moretti” dopo l’1-1 dell’andata. Dall’epilogo invece scontato dopo poche righe i racconti dei nerazzurri, che soltanto in semifinale avevano rifilato complessivamente otto reti al Perugia. Col pallone ai piedi scrivevano capolavori che sarebbero valsi carriere in Serie-A – Ambrosio, Foglio, Pavan, Viali, Locatelli, Savoldi – uno scudetto – Morfeo (Milan, 1998/99) – e addirittura una Champions LeagueTacchinardi (Juventus, 1995/96). Allenati da un futuro commissario tecnico della Nazionale, Cesare Prandelli, i nipotini della Dea a giugno avrebbero vinto il primo tricolore della società mentre il mese precedente si erano aggiudicati il Torneo di Viareggio, la principale rassegna internazionale del calcio giovanile.

A Zingonia mancava anche la Coppa Italia di categoria e l’occasione era propizia, perché l’Udinese in campionato era stata sconfitta per 5-1. Nei ragazzi di Arcadio Spinozzi, monumento di sudore e abnegazione nella Lazio degli anni Ottanta alla prima esperienza da allenatore, tanta forza di volontà e ottima preparazione tattica. Ma nessun predestinato alla gloria. Molti avrebbero avuto lusinghiere carriere in Serie-C – il terzino Livon (Pistoiese e Alessandria, fra le altre), il centrocampista Caleri (Sangiovannese, nove stagioni) – con qualche incursione in Serie-B – il difensore Molinari (Juve Stabia) – o addirittura degli assaggi di Serie-A con la prima squadra: il portiere Testaferrata, il difensore Compagnon e il centrocampista Mauro. Soltanto uno – Bachini – avrebbe toccato il paradiso – Juventus, Nazionale, Roberto Baggio – salvo esserne cacciato perché trovato due volte positivo alla cocaina.

In sintesi, Atalanta-Udinese era marziani contro umani. E complice la doppia sfida andata e ritorno, l’esito pareva scontato. Sennonché l’anomalia di una finale senza coppa non poteva svolgersi all’insegna della logica. Nel primo round, 24 marzo, stadio “Atleti Azzurri d’Italia”, a metà ripresa, grazie a un’autorete di Rovaris, futuro esterno sinistro di Serie-C, l’Udinese pareggiò il vantaggio dello stesso al tramonto del primo tempo, sigillandolo fino al novantesimo. Felicità insperata in contrasto con la diffusa irritazione dei bergamaschi, il cui prolungato possesso palla nella metà campo bianconera dopo l’1-1 non aveva dato i frutti sperati.

Il 31 marzo al “Friuli”, davanti circa 5.000 spettatori, l’Atalanta schiacciò subito l’acceleratore con Poloni, che aveva debuttato in serie-A poco più che sedicenne nel maggio ’91. Un rigore inesistente, alimentatore di nervosismo. E al 28’ Federico Pisani, altro talento atalantino destinato a molte soddisfazioni se un incidente stradale non se lo fosse portato via non ancora ventitreenne, raggiunse anzitempo la doccia per un fallo di reazione. Al 13’ della ripresa Compagnon, da vero capitano, si spinse in avanti e da posizione quasi impossibile scoccò il destro che ripropose il risultato dell’andata. Necessari i supplementari. Dove Capecchi, esterno destro che avrà trascorsi in Serie C2, riportò avanti l’Atalanta. Gioia fugace. Perché tre minuti dopo Fusco, dopo una stupenda azione solitaria di Budini (giustiziere dell’Inter con una punizione brasiliana), depositò il 2-2 nella porta sguarnita. Ma poteva comunque andar bene così, i gol in trasferta avrebbero fatto la differenza.

Sennonché a pochi minuti dal termine l’arbitro prese un altro abbaglio e scambiò il tuffo in area di Mauro per un fallo. Calcio di rigore. Atalanta infuriata, ma Udinese impaurita. Nessuno voleva andare sul dischetto. Troppa la responsabilità. Finché un difensore alto e robusto si fece avanti. Prese il pallone e lo posizionò sul dischetto. Diciannove anni, viareggino, Alessandro Pierini a dicembre aveva debuttato in Serie-A, a San Siro, contro il Milan. Albertino Bigon gli dette la maglia numero sei, dicendogli: “Oggi prendi il nove”. Uno che due settimane prima aveva segnato quattro reti al Göteborg in Coppa Campioni, tale Marco Van Basten. Quel pomeriggio però rimase a secco. Esame superato col massimo dei voti. Sei anni dopo, diretto dai fischi del Trap, avrebbe fronteggiato in Champions League Rivaldo, Guardiola, Figo, Beckham, Giggs, etc.

Come il ragazzo della canzone anche lui quel pomeriggio al “Friuli” “chiuse gli occhi e tirò senza guardare”. Ambrosio intuì. Ma non trattenne. Pierini allora si avventò sul pallone e non ebbe bisogno dei piedi di Zico per appoggiarlo in porta. Seguirono dieci minuti di trincea. L’Atalanta era furiosa. Per le decisioni arbitrali e anche con sé stessa. Forse aveva affrontato l’impegno senza la giusta fame. Ma non ci fu niente da fare. A vincere, fu l’Udinese.

“Inconsciamente, quell’anno noi in Coppa Italia, a differenza del campionato, avevamo dato tutto quello che avevamo” dice oggi Livon, che con le sue parole ci conduce dentro al mistero. Perché al fischio finale, come si desume dalle immagini, la coppa non c’era.

[Messaggero Veneto, 1 aprile 1993]

Come mai? “Non l’abbiamo mai saputo” prosegue l’ex terzino, che ricorda anche una promessa. Non mantenuta. “Ci dissero che per la successiva partita in casa dell’Udinese, ci avrebbero fatto fare il giro di campo con la coppa. Caso volle fosse contro l’Atalanta e lo ritennero poco carino. Rimandarono quindi alla seguente, contro il Milan. Ma non si fece nemmeno in quell’occasione. E così quella coppa nessuno l’ha mai stretta fra le mani”.

Pazzesco! Dal torneo estivo degli “Esordienti” al Mondiale non c’è finale senza trofeo. Quindi perché non fu così quel giorno al “Friuli”? Lo abbiamo chiesto agli organizzatori della manifestazione, la Lega di Serie-A, ma l’arcano è rimasto tale. E che fine ha fatto quella coppa? Saperlo sembra ancora impossibile. Così Livon: “Uno dei nostri compagni un giorno andò in società e disse d’averla intravista in una stanza”. Poi girò addirittura la voce che fosse andata persa durante il trasloco della sede. Abbiamo contatto l’Udinese per saperne di più, ma non ci hanno mai risposto.

Così quella coppa rimane quindi un piccolo grande mistero del calcio italiano. Certo, non tra i più esecrabili, ma comunque dannoso per la sua funzione sognante. Perché un giorno da eroe può accompagnarti per tutta la vita. E può essere anche l’unico. Come successo per molti degli artefici di quell’impresa. Celebrarli con tutti gli onori del caso, a cominciare da una convocazione in sede all’epoca per una foto con un trofeo vinto soltanto una volta in 124 anni di storia, sarebbe stato un atto dovuto.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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