Assomiglia a una lancia protesa verso il cielo, la snella guglia della Torre Unicredit dominante il quartiere di Porta Nuova, da pochi anni elemento di novità e discontinuità dello skyline di Milano e punto centrale, ma al tempo stesso avulso, del progetto urbano centrato su Piazza Gae Aulenti, opera di un pool di celebri architetti tra cui Cesar Pelli e Salvatore Boeri. Porta Nuova, edificata per essere il quartiere più avveniristico della città meneghina che aspira a presentarsi come finestra globale dell’Italia, fatica ancora a integrarsi col resto della città, e mentre la rapida successione di grattacieli, dal Bosco Verticale alla Torre Diamante, lascia spazio alla vecchia Milano si percepisce quanto ancora avulso dalla reale struttura della città sia questo ambizioso progetto architettonico. Non è certamente un caso che ad accaparrarsi la proprietà del complesso sia stato il fondo d’investimento sovrano del governo del Qatar, lo stesso che già possiede la totalità delle quote del Paris Saint Germain e ha operato investimenti in un portafoglio diversificato di partecipazioni azionarie in gruppi quali Barclays, Volkswagen, Airbus e HSBC. Gli emiri già finanziatori delle innovative e completamente sradicate cattedrali nel deserto di Doha, Dubai, Abu Dhabi, innalzate su fondamenta solide costituite da petrodollari, lavoro coatto e vanità, non curano strategie di lungo termine nella loro espansione finanziaria: la generosa ma al tempo stesso allegra gestione del PSG da parte dei suoi mecenati-padroni ha condotto certamente a risultati e vittorie, ma al prezzo del totale snaturamento del movimento calcistico francese e dello sradicamento della squadra simbolo della capitale, trasformatasi nel divertissement degli sceicchi Al Thani, dalla sua storia agonistica.
Da Porta Nuova, dai balconi soprastanti i giardini imprigionati del Bosco Verticale, guardando in direzione ovest si può scorgere il quartiere di Portello, oltre cui fa capolino la struttura dello stadio di San Siro. La Scala del calcio, costretta nelle ultime stagioni a trasformarsi temporaneamente in teatro di provincia a causa delle alterne fortune agonistiche di Milan e Inter, è entrata negli ultimi mesi nell’orbita degli investitori cinesi, e mette in cantiere la ristrutturazione per poter finalmente tornare protagonista sulla scena internazionale. Dopo che Suning ha posto fine all’interregno di Erik Thohir e perfezionato l’acquisto della maggioranza delle quote nerazzurre, ora la dimissione dall’Ospedale San Raffaele di Silvio Berlusconi dopo la recente operazione cardiaca ha dato la definitiva accelerata alla trattativa che porterà al passaggio di proprietà del Milan a una cordata di imprenditori cinesi, rappresentati dai manager Sal Galatioto e Nicholas Gancikoff. Se sulle generalità di coloro che si avviano a chiudere la trentennale storia del Milan berlusconiano sussiste ancora un velo di mistero, data la riservatezza con cui le trattative sono state sinora condotte, l’acquisizione di due club tra i più rinomati a livello internazionale segna una nuova pietra miliare nel percorso di evoluzione della strategia di investimento cinese sui mercati occidentali. Il capitalismo di Stato della Repubblica Popolare, infatti, è trainato da figure legate a doppio filo con i vertici politici e direzionali del Partito Comunista al potere a Pechino, il cui assenso è fondamentale per l’avvio di acquisizioni massicce e interventi diretti su mercati esteri. La strategia d’espansione degli imprenditori della “Nazione di Mezzo” è al tempo stesso economica e politica: molto più organizzati degli omologhi arabi o qatarioti, focalizzati esclusivamente sulla redditività immediata, essi non muovono una pedina senza aver prima calcolato profondamente le conseguenze a lungo raggio della loro azione, consapevoli che essa sarà funzionale alla veicolazione di un messaggio non solo finanziario, ma anche economico e culturale. Che si tratti della negoziazione di forniture di gas da parte della Russia, dell’acquisizione di milioni di ettari di terra coltivabile in Kenya o Tanzania, dell’espansione del controllo sui titoli di Stato del Tesoro USA o dello sbarco nel calcio italiano, lo Stato e gli imprenditori cinesi portano ovunque con sé un messaggio ben preciso, testimoniano l’interesse di Pechino per un settore ritenuto fortemente strategico.
E così, dopo l’improvvisa accelerazione data dal locale campionato al tasso di crescita della propria competitività, letteralmente inflazionata da campagne acquisti faraoniche che hanno visto club cinesi fare incetta di talenti europei nelle ultime sessioni, il calcio torna nuovamente in prima fila nelle strategie imprenditoriali degli affaristi d’Oriente. La scelta di Milano come base di sbarco della Cina nel mondo calcistico europeo non è stata casuale, ma ha risposto ad esigenze e pensieri di natura tattica e strategica; per il primo versante, è sicuramente risultata decisiva la ridotta incidenza conosciuta sinora dagli investimenti stranieri nel calcio italiano praticamente monopolizzato (eccettuando Inter, Roma e Bologna) dalla figura dei presidenti-padroni fautori di strategie di controllo centralizzate, mentre considerando il secondo bisogna volgere uno sguardo più ampio, analizzando le relazioni sempre più strette tra Milano e la Cina. Sul capoluogo lombardo sono infatti indirizzate consistenti fette dei 15 miliardi di euro affluiti verso l’Italia dalle casse degli investitori cinesi, che ad oggi controllano oltre 300 imprese e partecipano di numerosi gruppi di primo piano quali Intesa San Paolo, Mediobanca, CDP Rieti. L’acquisizione di Milan e Inter rappresenta, in tal senso, il veicolo promozionale ideale per sponsorizzare e incrementare un giro d’affari voluminoso e in continua crescita. La strategia cinese differisce da quella qatariota proprio per la maggiore efficacia comunicativa: Milan e Inter sono simboli noti a livello globale, nonché depositari di un potenziale altamente espandibile in termini di marketing e immagine, e rappresentano una componente primaria della città di Milano, di cui sono diventati due dei simboli maggiormente riconoscibili. E così, mentre gli emiri e gli sceicchi collezionano palazzi e ville da piazzare a facoltosi acquirenti, la Cina edifica una strategia di lungo corso e i suoi imprenditori veicolano tanto i propri progetti lucrativi quanto l’immagine stessa del capitalismo della Repubblica Popolare. Le battute di Berlusconi di qualche settimana fa sulla vendita del club ai comunisti rappresentano un’uscita decisamente fuori luogo, se si analizza l’abilità con cui la Cina ha interiorizzato le lezioni del turbocapitalismo finanziario occidentale, traendone ispirazione per una sempre maggiore penetrazione economica che in futuro si rifletterà inevitabilmente sulla politica e la società.
Visibile da Porta Nuova è anche il quartiere prospiciente la stazione ferroviaria di Porta Garibaldi, reso celebre da strade rinomate come Corso Como e Via Moscova. Nei loro paraggi si estende la Chinatown milanese, un quartiere caratteristico estesosi attorno a via Paolo Sarpi nel quale la comunità di immigrati cinesi ha prodotto una commistione curiosa di genti, mestieri, odori e sapori divenuta parte integrante della città di Milano. Nei giorni, mesi e anni in cui la Cina si fa sempre più vicina all’Italia e a Milano, il nuovo volto del dragone d’Oriente che si mostra nelle nostre città è quanto di meno tradizionalmente cinese ci potrebbe essere, quanto di più distante dalla piccola enclave milanese. A Chinatown il profumo dei cibi tradizionali porta un retrogusto di zafferano e il progredire delle generazioni ha portato alla nascita di un esperanto unico dovuto alla commistione di mandarino e dialetto milanese, udibile nelle conversazioni tra gli abitanti del quartiere, per nulla dimentichi della lingua della nazione d’origine ma al tempo stesso divenuti oramai autenticamente di casa nella città di Sant’Ambrogio. La materializzazione dei capitali della Repubblica Popolare veicola il nome e l’immagine della Cina, ma quale dovremmo ritenere noi la manifestazione più autentica di un paese dalla storia millenaria, la genuina peculiarità degli abitanti di via Paolo Sarpi e dei dintorni oppure i manager e gli imprenditori che, dimostrando di esser diventati maestri nella competizione maggiormente occidentale per storia e tradizione, maneggiano con destrezza le logiche del turbocapitalismo contemporaneo?