/

La C2 del Licata e le origini di “Zemanlandia”

Inizia la lettura
/
11 mins read

La C2 del Licata e le origini di “Zemanlandia”

Dilectissima. Così nel XIII° secolo Federico II di Svevia appellò Licata, cittadina in provincia di Agrigento, occhi sul Mediterraneo, spalle ai resti dell’antica Finziade e cuore della Bellezza quando fu investita da un nuovo modo di giocare a calcio. Si vince segnando un gol in più dell’avversario e non subendone uno in meno, si attacca anche per difendersi, il 4-3-3 un centro di gravità permanente, pressing a tutto campo, verticalizzazioni immediate, terzini con i polmoni di Antibo, centrocampisti degni di Maratona e attaccanti come Mennea.

«La gente paga ed è per loro che bisogna giocare, per farli divertire». Così al “Giornale di Sicilia” nell’agosto 1983 l’ideatore di quella filosofia. Un biondo trentaseienne di Praga, trascorsi anche nella pallamano, per un decennio allenatore e responsabile del settore giovanile del Palermo dove aveva fatto brillare molti giovani del territorio. Alcuni di loro – i terzini Castrense Campanella e Ignazio Gnoffo, il centrale Massimo Lo Verde, il centrocampista Giorgio Taormina e l’attaccante Giuseppe Romano – quell’estate misero piede insieme a lui sulla terra battuta dello stadio “Dino Liotta”, bolgia per circa quattromila anime senza contare quelle sui balconi dei palazzi circostanti.

Ad attenderli, il primo campionato professionistico della loro carriera. A 200 chilometri da casa, in stadi sperduti contro avversari dal nome mitologico come Aesernia, Gladiator, Akragas. Era il girone D della Serie C2, quarta serie. Dove il Licata era da un anno con un calcio di tutt’altra natura, pane e contropiede, e uno spogliatoio più maturo all’anagrafe che fu subito destabilizzato da una preparazione estiva mai vista prima. Corse nei boschi, ripetute con i sacchi di sabbia sulle spalle, addominali e flessioni. Per due settimane. Un sacrificio indispensabile per realizzare quell’idea così affascinante che però rischiò un precoce naufragio a novembre, 0-1 interno contro l’Afragolese e tifoseria in rivolta, salvo incassare la fiducia della società. Sarà ripagata da tre vittorie consecutive. Fra queste l’1-0 alla Nocerina futura promossa, firmato dal bomber Michele Pecoraro che abbraccerà il suo tecnico per poi elogiarlo ai giornalisti – «La vittoria odierna gli dà ragione», e il 2-1 alla Reggina, prima della classe sconfitta anche al ritorno grazie proprio alla doppietta di uno di quei picciotti, Taormina.

Undicesimo al traguardo, il Licata aprì alla rivoluzione. Via quasi tutti gli anziani, spazio ai guanti coraggiosi di Emilio Zangara e altri frutti della semina palermitana: il centrocampista Antonino Santonocito e gli esterni d’attacco Paolo Calafiore, Lirio Torregrossa (diciassette anni, dai Cosmos di Palermo, Seconda Categoria; dodici mesi dopo sarà in ritiro col Torino, Serie-A) e Maurizio Schillaci, cugino del non ancora famoso “Totò”, imprendibile nelle sue accelerate sulla fascia, che di quell’allenatore taciturno per tanti, molti anni dopo, in più di un’intervista, avrebbe detto: «Quanto parlava con noi. E poi che spasso quando lo faceva in dialetto siciliano».

Quello in voga anche sulle Madonie, tra Petralia Sottana e Gangi, sede di un ritiro precampionato nel segno del sudore, delle verdure bollite a tavola, delle vesciche ai piedi, di qualche crisi gastrointestinale e della sola voglia del letto quando si faceva sera. Ma per l’artefice di quel Licata fresco e spensierato – età media di ventitré anni e mezzo – era la normalità. «Ragazzi ancora imballati dal lavoro di questi giorni, le doppie sedute giornaliere sono andate bene, ora altre due settimane di interval training, in quaranta giorni troveremo condizione soddisfacente per inizio di campionato» dichiarò senza scomporsi al “Giornale di Sicilia”. Era l’agosto 1984. E sembrò avere ragione. Quando partì il torneo, 23 settembre, 4-1 all’Ercolanese e 2-0 al Canicattì. “Undici professori in campo” titolò la stampa. Ogni domenica, grappoli di occasioni da gol. Però, dopo otto partite, appena otto punti. Eppure, nello spogliatoio, autostima e fiducia. Così il veterano e capitano Vittorio Schifilliti dopo lo 0-1 di Sorrento: «Se questo è il Sorrento che deve andare in C1, significa che anche il Licata è candidato alla C1».

Una profezia. In autunno, quattro vittorie consecutive, tre delle quali in trasferta. Impensabile nell’epoca dei due punti a vittoria. 2-1 a Siracusa, 1-0 al Rende poi 3-2 in casa della Nissa nonostante lo 0-2 al 25’: «Vittoria non cambia programmi. Noi viviamo alla giornata» il tono flemmatico di quell’uomo venuto da Est, che nel successivo 2-0 in casa dell’Alcamo affrontò un altro dei suoi ragazzi di Palermo destinato poi al gialloblu: Maurizio Miranda. Al termine del girone d’andata, grazie anche al natalizio 6-1 in casa della Frattese (4-0 già al 30’), il Licata era in testa alla classifica.

Gioia illusoria. Inverno, richiamo atletico, gambe pesanti, quattro punti in cinque partite e sorpasso in vetta del Sorrento, che il “Guerin Sportivo” di fine marzo 1985 pronosticò sicuro vincitore. Ignorava il connubio tra Praga e la primavera. A marzo i giardini di Licata fiorirono di nuovi colori: 4-0 all’Aesernia, 1-0 al Frosinone e 3-0 al Siracusa nella giornata di un licatese purosangue, il sedicenne Angelo La Mattina, al debutto assoluto e da titolare. «Da sei mesi è con noi, sapeva cosa fare e l’ha fatto bene» commentò chi lo schierò come terzino sinistro per le assenze di Gnoffo e Angelo Consagra, simbolo dell’universalità tattica di quella squadra: interno di centrocampo ed esterno d’attacco nella precedente stagione, ora difensore centrale e di fascia.

12 maggio 1985. Potenza fu mirabile sintesi emotiva di quella filosofia. Rigore fallito da Bonanno e capitolazione imminente se non fosse per la prodezza di Zangara sul tiro di Pepe dagli undici metri. Poi, a poco dallo scadere, Torregrossa per Schillaci, Potenza al tappeto e Licata sogna a occhi aperti. «È vittoria giusta, nessuno può discuterla» le parole di quel mister solito ripetere ai suoi ragazzi che non era importante prendere tre gol, ma farne quattro.

Terzultima giornata, terzetto al comando con 40 punti – Sorrento, Licata e Frosinone – ma solo due salivano. Sotto 1-0 in casa di una Turris a quota 38, nella ripresa, sull’ennesimo cross di Campanella, Schifilliti aprì le porte del sogno. Per la prima C1 della storia sarebbero bastati due punti. Arrivarono la settimana successiva. Schifilliti, Romano e Schillaci per il 3-1 all’Ischia e via alla festa. «Ce l’abbiamo fatta! È merito dei ragazzi!» commentò quel giovane uomo riparato a Palermo dallo zio Cestmir Vycpalek (tecnico della Juventus) nei giorni di Jan Palach. Il suo pensiero fu tutto per loro. Zangara, Campanella, Consagra, Schifilliti, De Cento, Taormina, Schillaci, Giacomarro, Romano, Santonocito, Torregrossa. Senza dimenticare Giuffrida, Gnoffo, Bonanno, Calafiore, Ruisi, La Mattina e Fecarotta. Eroi di una città pazza di gioia, di un mondo senza Internet, cellulari e televideo (i risultati degli altri si apprendevano dal telefono della sede) e di un calcio senza tatuaggi e procuratori. Dove ci si allenava sullo stesso campo della partita, spesso senza erba. Dove le trasferte si facevano in pullman e a seconda del calendario si poteva stare anche una settimana via da casa.

Il 2-2 di Pagani del 9 giugno sigillò il trionfo di quel Licata di soli siciliani: 44 punti e miglior attacco con 58 gol. 30 invece quelli al passivo, uno in più del Canicattì quattordicesimo. Nata sulle rive del Salso, tra l’aroma delle arance e il profumo delle ginestre, quella filosofia del segnare un gol in più si era dimostrata vincente. Negli anni divertirà Messina, consacrerà Foggia, bagnerà le due sponde del Tevere, ed esalterà Pescara. La chiameranno “Zemanlandia”. Dal nome del suo ideatore, quel biondo allenatore boemo sempre nel cuore di quei ragazzi (molti lo invitarono ai loro matrimoni) e dal 2010 cittadino onorario della Dilectissima: Zdenek Zeman.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

Articoli recenti a cura di