In un’Europa fatta di barriere e fili spinati che sbarrano la strada a uomini, donne e bambini in fuga da guerra, morte e distruzione, in un’Europa indifferente, che alza muri nella speranza di non vedere gli occhi disperati di chi chiede solo una possibilità alla vita, c’è una bella storia da raccontare. A Roma, nel quartiere Pietralata, c’è un gruppo di ragazzi. A loro non importa che colore abbia la pelle dell’altro, che Dio prega, cosa mangia a cena. A loro piace il pallone. Sono loro, i ragazzi della Liberi Nantes Football Club, prima squadra di calcio formata interamente da rifugiati e richiedenti asilo. Questa storia me la racconta Antonio Marcello, 36 anni, sistemista programmatore nella vita di tutti giorni e allenatore dei Liberi Nantes dal 2010.
Quando nasce la squadra?
Liberi Nantes nasce nove anni fa, prendendo spunto da un evento che si tenne proprio nel 2005: i mondiali antirazzisti. Da lì un gruppo di ragazzi romani ha preso spunto per mettere in piedi un’attività che fosse continuativa all’interno del territorio della capitale. L’idea è ovviamente quella per cui lo sport è un diritto di tutti. Lo scopo principale è quindi diventato lo stare bene, permettendo ai ragazzi di vivere un’esperienza divertente ma anche educativa.
Educativa in che senso?
Lo sport permette di definire delle regole che i ragazzi devono rispettare: dalla puntualità al rispetto per i compagni, per l’arbitro, per le squadre che di volta in volta incontrano. Queste sono regole che poi i ragazzi portano anche fuori dal campo, durante gli incontri e le uscite fatte assieme ai volontari che collaborano con l’associazione. Per questi ragazzi – di età compresa fra i 19 e i 30 anni – è molto importante sentirsi impegnati, avere qualcosa da fare. Noi cerchiamo di coinvolgerli in attività anche extra sportive. Insomma, escono non solo per andare in commissariato a richiedere il permesso di soggiorno o alla scuola di italiano ma anche per una semplice riunione fra amici.
Quanti sono i rifugiati che passano per la squadra di Liberi in un anno?
Si parla di 100-150 ragazzi in un anno. Ad alcuni lo sport interessa poco e prendono altre vie, altri invece restano con noi per un po’. Quando poi vengono trasferiti in altri centri di accoglienza (i centri hanno dei tempi di permanenza limitati, ndr), diventa più difficile continuare a seguire le attività della squadra, gli allenamenti. Per esempio uno dei primi ragazzi di Liberi Nantes è stato da poco trasferito in un centro d’accoglienza a Viterbo. Da lì è chiaramente più difficile per lui raggiungere Roma. Molti di loro poi sono con noi fin dal 2009. Per fortuna da allora molto è cambiato: oggi hanno un lavoro, una vita propria, sono del tutto integrati. Per questo sono meno “attivi” dal punto di vista sportivo. Spesso poi fanno da mediatori culturali e aiutano i nuovi ragazzi a inserirsi al meglio.
I paesi di provenienza?
C’è stato un periodo in cui c’erano molti afghani in squadra, oggi ci sono molti cambiani. Diciamo che rispetto a qualche anno fa, si vedono facce più chiare che simboleggiano il diverso tipo di migrazioni in corso.
Dal 2008 Liberi Nantes disputa il campionato di Terza Categoria regionale. Spesso i documenti dei migranti arrivati da noi non ci sono, o non sono validi. Come fate per il tesseramento?
È vero, i ragazzi spesso quando arrivano non hanno ancora il permesso di soggiorno o tutte le carte in regola. Proprio per questo non possiamo avere un tesseramento simile a quello di qualsiasi altra squadra. Ma grazie a un accordo con la Federazione (Figc, ndr), riusciamo a tesserarli lo stesso. Quindi giochiamo un campionato vero ma di fatto siamo fuori classifica. Si aspira comunque alla “coppa disciplina”, valida per tutte le squadre di terza categoria e che si vince contando il numero di cartellini rossi, gialli o più in generale valutando il comportamento dei giocatori durante le partite. Questo, ci permette di stimolare i ragazzi
Ci sono stati atteggiamenti razzisti nei confronti della squadra?
In linea di massima, l’atteggiamento anche delle altre squadre che incontriamo è amichevole. Ogni tanto si percepisce un razzismo “sottile”. Si sente dire “Sono poveri, aiutiamoli” oppure c’è la tendenza a esagerare – scadendo nel vittimismo – le storie dei ragazzi. Anche il ritenerli culturalmente inferiori è una forma sottile di razzismo: molti di loro studiano, sono laureati, hanno insomma un livello d’istruzione medio-alto che spesso viene bypassato.
Invece a livello pratico, chi vi finanzia?
Ogni anno attiviamo un crowdfunding per la raccolta fondi che sicuramente ci permette di pagare il campionato e comprare l’attrezzatura per i ragazzi. Da due anni a questa parte si è affacciata al nostro campo la Roma Cares, una fondazione della Roma calcio, che ci ha messo in contatto con Sisal match point. Da lì sono arrivati un pochino di aiuti che ci hanno reso la vita un po’ più semplice. Il campo sportivo su cui attualmente ci alleniamo ci è stato dato in totale stato di abbandono, quindi i soldi che arrivano dai liberi finanziamenti ci hanno permesso di rimetterlo in piedi, anche grazie all’aiuto di molti dei rifugiati. Fra loro infatti c’è chi fa l’idraulico, il muratore, l’elettricista… le loro conoscenze e competenze ci sono servite per rendere il luogo più agibile.
Fra le storie di vita che questi ragazzi si portano dietro, ce n’è una che ti ha colpito particolarmente?
Sicuramente tutte le storie a lieto fine. Noi ci occupiamo dei ragazzi cercando di farli divertire, distrarre. Una volta uno dei ragazzi ha raccontato del suo viaggio sotto un camion, da Bari verso Roma, dopo essere sbarcato sulle coste pugliesi con uno dei soliti barconi. All’epoca aveva 15 anni e in Italia non aveva nessuno. Oggi gestisce un sushi bar a Pigneto. Questi giovani lottano ogni giorno a lottare per avere qualcosa, che sia un lavoro o un permesso di soggiorno. Da noi, al campo, una delle regole a cui li abituiamo è questa:” adesso sei qui, lascia fuori i problemi. Qui hai un solo obbligo, divertirti”.
Cosa hai imparato facendo da allenatore a questi ragazzi?
Adesso vedo le cose per quello che sono, senza il filtro mediatico dei salviniani di turno. La maggior parte della gente vede i rifugiati come persone cattive, pericolose, da cui stare alla larga. Per altri si tratta di criminali, di ladri. Non è così. In sei anni ho sempre lasciato zaino, portafogli e soldi negli spogliatoi. Non mi è mai sparito nulla!