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Krešimir Ćosić, la leggenda del Fenomeno che disse di No alla Nba

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Krešimir Ćosić, la leggenda del Fenomeno che disse di No alla Nba

Ieri, 25 maggio, si ricordava la morte, datata 1995, di Kresimir Cosic, il fenomeno croato della palla a spicchi prematuramente scomparso che disse no al prestigio del basket americano NBA, diventando leggendario anche per questa sua scelta. Vi raccontiamo la sua storia.

Spiegarlo ai giovani di oggi forse è quasi impossibile, però c’è stato un tempo in cui l’America non era il tutto del pianeta cestistico, ma solo una parte di esso. Se era vero che loro il gioco lo avevano inventato, dall’altra parte delle pozzanghera gli si aveva dato un senso compiuto ugualmente altissimo. E se è altrettanto esatto che fossero per primi gli Stati Uniti a guardare con sospetto a chi dall’Europa voleva palleggiare oltre Oceano, poteva capitare che qualcuno fossero proprio loro a cercarlo. Ma poteva anche capitare che quel qualcuno rispondesse con un “no, grazie”. Addirittura due volte. Lo face, per esempio, Krešimir Ćosić, che magari oggi lo racconterebbe sorridendo, se solo il destino non lo avesse richiamato in panchina per l’eternità un 25 maggio del 1995, ad appena 47 anni. Maledettamente troppo presto.

Lui, Ćosić, gli americani sarebbero stati ben contenti di buttarlo sui loro parquet più belli, più ricchi e lucenti. Peccato che si fossero visti respinti, perché quei 210 centimetri di rara bellezza cestistica se ne voleva tornare a casa sua, in quella Zara da cui era partito per l’avventura universitaria.

La vita di Cosic

L’aereo l’aveva preso nel 1971 Krešimir Ćosić, ventitreenne che in quella Jugoslavia Stati Uniti d’Europa già faceva gola a mezzo campionato. Era nato nel ’48, a Zagabria. Sangue croato puro, in tempi duri dove tirarsi fuori dalla miseria. Krešimir cresce tanto in altezza, troppo poco nel peso. Tocca i due metri, che su quel fisico scavato fanno quasi impressione. Leggenda narra che tra gli amici venisse anche schermito col nomignolo Auschwitz, perché così lungo e incredibilmente magro faceva tornare alla mente chi nei campi di sterminio vi era stato veramente. Eppure, con le mani ci sapeva fare. Tradizione nazionale, d’altra parte: in Jugo la sensibilità nei polpastrelli è roba all’ordine del giorno, largamente diffusa e specie protetta. Gli strizzano l’occhio a Zara, dove Ćosić si è trasferito ancora bambino, con tutta la famiglia. Entra presto nello Zadar e neanche quindicenne è già nel mondo dei grandi. La canotta gliel’ha lanciata Enzo Sovitti, che del club ne è coach ma soprattutto anima. Perché Saviotti è uno dei pionieri della palla a spicchi: ha iniziato a sbattere a terra il pallone quando ancora i parquet non esistevano e mica tutti sapevano cosa fosse questa cosa di lanciare una sfera in una retina e non dentro una porta.

Il primo successo

Nel ’65 arriva già il primo alloro: una vittoria del campionato che verrà centrata anche due stagioni più tardi e quella successiva ancora, quando ormai il timone del comando è passato da Saviotti a Zdrilić. Tanto basta perché un altro guru del basket jugoslavo, Ranko Žeravica, scelga anche il nome di Ćosić per la Nazionale in partenza per il Messico e i giochi olimpici del 1968, in una parata di stelle che ospita anche Pero Skansi e soprattutto Radivoj Korać, uno talmente tanto forte che dopo la sua prematura scomparsi gli verrà intitolato il secondo trofeo europeo per importanza dietro la Coppa dei Campioni. In Messico, Krešimir fa la sua figura, partendo spesso dalla panca e mettendo i punti che contribuiscono alla cavalcata dal girone alla finale. Di minuti però ne accumula tanti, anche in semifinale, quando ne gioca 21 nel match che vede la Jugoslavia spuntarla di appena una lunghezza su quell’altra superpotenza chiamata URSS. In finale, il minutaggio cala invece a 13. Ćosić ne mette comunque 4, ma contro gli Stati Uniti valgono a poco. La Jugo riesce a rimanere incollata fino all’intervallo lungo e all’ultima sirena sono appena cinque le lunghezze che separano gli slavi da un oro che finisce invece al collo di due future stelle Nba: Jo Jo White e Spencer Haywood, destinati a mettersi al dito l’anello l’uno con Boston e l’altro con Los Angeles. E di lì a poco, anche Ćosić conoscerà quella parte di globo.

L’arrivo negli Stati Uniti

Ci arriva nel 1971, da studente universitario e reclutato dalla Brigham Young University, in quell’Utah così bianco e religioso dove la parola di Dio viene ascoltata molto prima che quella dell’uomo. Ma per quello che ormai per tutti è semplicemente Kreso, l’esperienza varrà molto più che in termini sportivi. Se dalla Croazia parte solo un ragazzo, ne tornerà un uomo cambiato dal profondo. Nella Salt Lake Valley, Kreso scopre qualcosa di più alto di lui, si converte alla Chiesa, diventa Mormone. Ne sposerà talmente tanto la causa che al ritorno nella vecchia patria non si accontenterà di professarne il verbo, ma si spenderà in prima persona per tradurne i testi in croato. Quello che però riceve, Kreso finisce col restituirlo con gli interessi, sotto forma di basket. Perché da quelle parti, un lungo così raramente lo hanno visto. Un 2.10 con quelle mani è merce rara, prodotta in poche parti del mondo. Ed è merito della scuola slava, dove le mani vengono prima di tutto, anche dell’altezza. E in ogni zona del campo un giocatore deve saper fare qualsiasi cosa. Ćosić questo lo ha imparato, diventando un lungo atipico. Probabilmente il primo prototipo di giocatore moderno. Sgomita a rimbalzo sotto le plance, stoppa in difesa e schiaccia in attacco. Però sa anche tirare e passare, tanto da venire fino alla linea del tiro libero per imbucare un assist per il taglio degli esterni.

Il rifiuto alla NBA

Se non tira da 3 è solo perché l’arco ancora deve essere inventato: fosse nato trent’anni dopo, ce lo avremmo sicuramente visto. Ma anche senza bombe, dalle parti di Utah finiscono con amarlo e ricordarlo ancora. Basta aprire un almanacco e leggere. 1512 punti realizzati: record. 919 rimbalzi catturati: record. 381 tiri liberi messi a segno: record. Con cifre del genere è impossibile finire nel dimenticatoio o anche solo passare inosservati. Infatti, dalla Nba iniziano a chiamare. Nel ’72 Portland lo vorrebbe al Draft, un anno più tardi Los Angeles manifesta il medesimo interesse. Kreso ringrazia, ma risponde no. Vuole tornare a casa, a Zara, per rimettere la canotta dello Zadar. Lo fa nel 1973 e immancabili tornano i successi. Altri due titoli consecutivi col club, ancora un argento olimpico e sempre contro quegli Stati Uniti che impongono lo stop alla Jugoslavia a Montreal ’74. Poi Lubiana e due stagioni a dispensare pallacanestro in biancoverde, prima di ricevere una chiamata dall’Italia.

Cosic, l’anti Meneghin

Krešimir Ćosić piace a Bologna, sponda Virtus. A Basket City regna il bianconero e soprattutto l’altro Avvocato, Gianluigi Porelli. Il presidente non solo ha quattrini, ma anche le idee giuste su come investirli. Non a caso, ha contribuito in prima persona a dar vita alla Legabasket e se Dan Peterson è arrivato a cambiare la nostra pallacanestro lo si deve proprio a lui, che quel personaggio così geniale e caratteristico se l’è andato a prendere fin negli Stati Uniti. E nell’estate del 1978, Porelli ha due interrogativi da chiarire. Il primo è proprio legato a coach Dan. I due sono stati insieme per cinque stagioni, hanno vinto una coppa e uno scudetto, ma nella stagione appena passata il tricolore è sfumato proprio in finale. Che sia arrivato il momento di cambiare? Il secondo punto è quello che ormai gira da troppo tempo: serve un anti-Meneghin, altrimenti ciao sogni, almeno finché quel mostro di centro non smetta di giocare. E non sembra averne intenzione. Alla prima domanda, l’Avvocato risponde salutando Peterson e proponendo a Terry Driscoll, che fino a pochi mesi prima la Virtus la stava guidando da giocatore. L’altro quesito trova invece risposta con un nome e cognome: Krešimir Ćosić, è lui l’uomo sul quale investire per tornare grandi. Gli unici dubbi sono età e fisico. Ćosić ha trent’anni, in un epoca dove averne significa essere vicini alla fine della carriera e non all’apice della propria esperienza sportiva. E poi in estate di botte ne ha prese tante, ai Mondiali, ma sono valse un oro nelle Filippine, al fianco di Kićanović e Dalipagić, dove la Jugoslavia del professore, Aza Nikolić, ha battuto l’URSS del colonnello, Aleksandr Gomel’skij.

Le perplessità iniziali e la smentita del campo

I primi mesi di Kreso finiscono con confermare le iniziali perplessità. La vera star sembra essere in realtà Owen Wells e la classe italiana di Renato Villalta. Ćosić va a corrente alternata, finché con coach Driscoll non si assestano le cose. Via qualche allenamento dalla settimana, dentro una zona 3-2 che ne preservi i movimenti in campo. Al resto pensa il ragazzo di Zagabria, che si rivela piatto pregiato anche ai palati fini dei bolognesi sponda bianconera. E a Piazza Azzarita si sfregano le mani. In stagione regolare arriva il secondo posto, ai playoff una cavalcata che offre la finale con quella Billy Milano appena presa da Dan Peterson e destinata a riscrivere la storia. Non in quella finale però, perché Ćosić da solo passa come Mike D’Antoni e annienta C.J. Kupec. Bologna vince in casa gara 1 e trasforma in passerella anche la seconda uscita, in terra meneghina. È scudetto, appena nove mesi dopo aver messo piede sotto le torri. L’anno seguente sarà ancora tricolore, questa volta contro Cantù. Una dopo l’altra, ai playoff cadono Torino e soprattutto la Varese di quel Dino Meneghin alla cui potenza l’Avvocato Porelli aveva voluto opporre Ćosić. Ancora una volta, avrà avuto ragione il boss bianconero.

Kreso lascia la Virtus a secondo tricolore raggiunto. Torna a casa, in Croazia, questa volta sponda Cibona. Chiude in bellezza: tre coppe nazionali, un titolo, soprattutto una Coppa delle Coppe, strappata al Real Madrid del compagno di Nazionale Mirza Delibašić. Nel mezzo anche l’oro olimpico, a Mosca, nell’80, proprio contro quell’Italia del Villalta con cui aveva condiviso spogliatoio e due tricolori. E fa niente che gli Stati Uniti non ci fossero.

La carriera da allenatore 

Molla il basket giocato nel 1983, Krešimir Ćosić, per dedicarsi alla panchina. Ma lì avrà meno successi. Tornerà anche a Bologna, ma raccogliendo una stagione anonima e un playoff perso addirittura nel derby contro la Fortitudo, che veniva dall’A2. Il punto più alto lo toccherà nel biennio con la Nazionale: bronzo al Mondiale ’86 e all’Europeo 1987. Insieme alla gioia, la sensazione di non aver sfruttato al meglio quella nidiata di campioni chiamati Petrović, Kukoč, Divac e Dino Radja. Al talento, Ćosić aveva sempre unito un’intelligenza fuori dal comune. Negli Stati Uniti si era laureato e lì sarebbe tornato, distinguendosi anche fuori dai parquet: quando la Croazia aveva iniziato la sua guerra di indipendenza, a Washington si era fatto nominare vice ambasciatore, per fermare quel conflitto che avrebbe cambiato la cartina dell’Est europeo. Voleva però tornare al basket, Kreso. Ci sarebbe riuscito, se la malattia non l’avesse stoppato, il 25 maggio del 1995. Questa volta neanche le sue lunghe leve avevano potuto arginare l’irreparabile. Avrebbe potuto fare ancora tanto, ma forse quanto realizzato fin lì poteva bastare.

Essere il primo giocatore moderno in un’epoca passata e aver detto no al sogno americano, per viverselo a casa propria. Se questo non è tanto, probabilmente è addirittura tutto.

 

2 Comments

  1. Il più grande che io abbia mai visto sui parquet italiani. Un giocatore avanti anni luce, appartenente ad ere successive, un genio.

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