Kim Vilfort, il meno importante dei miracoli
– Lieve è il dolore che parla. Il grande, è muto – Seneca
I sopravvissuti non sono eroi, nemmeno quando a qualcuno viene facile definirli tali. I sopravvissuti sono mutilati, non perché manchi loro un braccio, o una gamba: sono tornati da un dolore senza quel pezzo di anima che hanno dovuto lasciare nel fondo del pozzo, per consentire a ciò che di loro è rimasto di riaffiorare. Anche quando corrono o ridono in mezzo agli altri; anche se gli altri sanno, senza poter capire.
I calciatori della nazionale danese nella primavera del 1992 non pensavano certo al Campionato europeo che sarebbe iniziato a giugno in Svezia, visto che non lo avevano meritato, sopravanzati nel Gruppo 4 di qualificazione dalla fortissima nazionale di una Jugoslavia che era in dissoluzione a causa del conflitto etnico che la stava riducendo in frantumi. Pensavano alle vacanze. Tutti, tranne uno.
Il primo di giugno, la Risoluzione 757 del Consiglio di sicurezza dell’ONU vieta a ogni rappresentativa jugoslava di partecipare a manifestazioni internazionali. Tocca alla Danimarca sostituire Mihajlović e compagni. Hanno già fatto le valigie per le ferie, i giocatori danesi. Tutti, tranne uno.
Si radunano in fretta e furia, dopo essere tornati di corsa da luoghi più o meno esotici o da spiagge assolate. Devono recuperare la condizione in fretta e furia, ritrovare la brillantezza atletica, tornare a concentrarsi solo sul torneo, senza altri pensieri in testa. Tutti, tranne chi invidia i propri compagni, la cui unica preoccupazione è quella di evitare figuracce in un girone con Inghilterra, Svezia, Francia.
Kim Vilfort, centrocampista infaticabile nella corsa, ma con un piede rispettoso del pallone, con una spiccata propensione all’inserimento offensivo, un’attitudine alla conclusione dalla media distanza suffragata dalla statistica. Uno di quelli che si apprezzano meglio dal vivo, allo stadio, che attraverso la tv, per capirci.
Chiuderà la carriera totalizzando dodici stagioni al Brøndby, dopo aver vinto sette scudetti, con 110 gol messi a segno nel corso di 470 partite.
Nell’estate del ‘92 il CT Richard Møller Nielsen, che aveva in programma di ristrutturare la cucina di casa sua, si trova a dover procedere in fretta e furia alle convocazioni. Il più celebre dei suoi giocatori, Michael Laudrup, risponde in modo sprezzante che la sua nazionale è il Barcellona, lasciando intendere che non interromperebbe mai le vacanze per partecipare a quella che si profila come una probabile umiliazione. Kim Vilfort è uno dei fedelissimi di Møller Nielsen, oltre che un leader del gruppo. Ma il CT presume che, stavolta, non potrà avere la disponibilità del suo giocatore più affidabile. Stavolta no: sua figlia Line è in ospedale a Copenaghen, affetta da una grave forma di leucemia.
Quando Vilfort prepara le valigie in vista della partenza per la Svezia, forse nemmeno lui si rende bene conto di quello che sta facendo. O, forse, come ogni danese, calciatore, tifoso o giornalista che sia, presume che la sua assenza durerà il tempo di tre partite. Come se esistesse qualcuno che possa realmente dirsi certo di ciò che accadrà. Come se tentare di prevedere le cose potesse renderle più gestibili.
Uno 0 – 0 molto poco spettacolare con l’Inghilterra, quindi l’aereo per tornare a Copenaghen, da Line, come concordato per le pause tra una gara e l’altra. Poi una sconfitta di misura contro la Svezia padrona di casa. Sembra che sia già finito lì, l’Europeo dei danesi; forse la gente in patria nemmeno guarderà la terza gara, contro la Francia di Papin e Cantona. Vilfort decide di non giocarla, per aumentare le ore, quanto mai preziose, di vicinanza a sua figlia.
Nessuno, certamente non i danesi e meno che mai i francesi avrebbero mai potuto pensare a un 1 – 2 per la nazionale biancorossa, che dopo essere stata raggiunta al sessantesimo dal gol con cui Papin pareggia la rete iniziale di Larsen, trova diciotto minuti più tardi il punto decisivo con Elstrup.
C’è un uomo, all’aeroporto di Copenaghen, che deve lasciare il cuore su una sedia accanto a un letto d’ospedale, per portare in Svezia testa e polmoni. La semifinale dice Olanda, quella dei van Basten, Gullit, Rijkaard, Bergkamp e via magnificando. Se contro la Francia era servito un mezzo miracolo, stavolta non ne basterà uno intero. Poi la partita inizia a raccontare una storia diversa, con al centro la vicenda di un uomo che ha riportato in Svezia il suo fosforo da centrocampista razionale e il coraggio di un gigante, che nei polmoni sfiniti tiene insieme a stento i frantumi del cuore. Lo imitano e lo proteggono al tempo stesso, i compagni, che inchiodano la grande Olanda sul due a due, quando finisce il tempo regolamentare. E quando altro tempo consuma i supplementari, tra marcature attente e acido lattico. A quel punto il destino, da quell’ineffabile trasformista che è, decide di annidarsi tra i guanti di Peter Schmeichel, che hanno protetto la nazionale sin dall’inizio. Nello stesso punto impatta il rigore di Marco van Basten, schiaffeggiato oltre il palo alla sinistra del gigante biondo.
E ora? Ora c’è la Germania in finale, quella della frase di Lineker buona quasi per ogni epoca; c’è un letto piccolo all’ospedale di Copenaghen che restituisce sempre il senso e gli aggettivi alle cose, c’è un centrocampista che vuole quasi bene alla fatica che interrompe i pensieri; che non distingue se sia l’uomo che sta proteggendo il calciatore o viceversa. C’è Kim Vilfort, mediano intelligente del Brøndby, che forse per una vita ha sognato una finale contro i tedeschi: ora Klinsmann, Sammer o il capitano Brehme gli appaiono un modo come un altro per non pensare. Un’altra occasione per correre via dall’angoscia, come fa al minuto 78, con la Danimarca già in vantaggio sin dal primo tempo grazie al siluro di Jensen.
La sua percussione culmina nel punto esatto dove la rotondità della lunetta incontra la linea dell’area di rigore tedesca; il suo sinistro sibila tra il palo e la mano di Illgner. Il fremito della rete sintetizza la gioia che sta regalando a un paese intero, senza potervi del tutto prendere parte: ciò che aveva sognato sin da quando era ragazzino, ora non riesce nemmeno a distrarlo del tutto: nel riflesso della Coppa Europa c’è il volto di un uomo che per metà di se stesso sorride allo Stadio Ullevi di Göteborg, per l’altra non osa nemmeno chiedere cos’altro abbia in serbo per lui l’estate del 1992.
Se avesse potuto, anche la vita di sua figlia l’avrebbe affidata ai guanti di Schmeichel; lui che aveva meritato, da artefice della gioia, il centro della scena di ogni bevuta, non i cocci aguzzi di bottiglia della festa finita.
Le estati del Nord Europa sembrano fatte apposta per ricordare a tutti che le cose belle non durano, anche se sembra contro natura spegnere il sole dopo averlo tanto atteso; anche se una bambina di otto anni non dovrebbe andarsene nell’estate in cui suo padre dovrebbe tenerla sulle spalle sopra un pullman scoperto, in mezzo a un corteo di tifosi, mentre tutti prosciugano boccali di birra e alzano verso il cielo di Copenaghen cori da vichinghi.
Tutti, tranne uno.