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Josè Leandro Andrade: la vita estrema della Maravilla Negra

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Josè Leandro Andrade: la vita estrema della Maravilla Negra

Il 5 ottobre 1957 moriva Josè Leandro Andrade, la Maravilla Negra, il fenomeno dell’Uruguay capace di tutto, dentro e fuori dal campo. Vi raccontiamo la sua storia.

La Garra Charrúa ancora doveva fare il giro del mondo, il Maracanazo neanche era arrivato. Ma prima che le luci della ribalta si accendessero, l’Uruguay già pretendeva di avere l’ultima parola. E sicuramente deteneva i diritti per pronunciarne la prima. Anni 20, l’inizio di tutto. La Celeste di cui si parla meno è quella che ha dato il via a tutto: genitrice della banda che avrebbe fatto disperare il Brasile, antenata di quella che ha emozionato con Tabarez in panchina. Se non ci fosse stata lei, probabilmente, non esisterebbe neanche questo presente. E tra i suoi profeti, spiccava José Leandro Andrade, un po’ Pelé prima del tempo con una spruzzata del Garrincha ante litteram. Solo che a O Rei somigliava per fisico e talento, a Mané solamente per una fine arrivata prima del tempo e in condizioni tragiche. Ma forse anche quella uscita di scena ne ha tracciato i contorni epici.

Le origini di Andrade

Andrade in Uruguay era nato, il 20 novembre del 1901, ma la pelle ne tradiva un origine diversa. Mamma argentina, padre afro brasiliano scappato dalla schiavitù: su di lui la leggenda ha dipinto un ritratto da stregone. Di sicuro c’era solo il goccio di sangue verdeoro versato nelle vene del figlio. La vita la conosce a Salto, José, poco meno di 500 chilometri da Montevideo, la stessa città che svariati anni dopo vedrà tirare i primi calci a Edinson Cavani e Luis Suárez. Ma Andrade non era attaccante, giocava centrocampista, scorrazzando il suo metro e ottanta per una mediana dove fa tutto: attacca, difende, interrompe azioni e ne fa ripartire altre. Giocatore completo, scoperto quando dalla città di origine parte e approda nella capitale, attirato da carnevale e dal Candombe, la danza africana che aveva permeato la cultura uruguagia. L’infanzia povera lo aveva costretto a fare di tutto, oltre a suonare il tamburello e calciare un pallone. Lustrascarpe e giornalaio, anche se è in mezzo al campo che rende veramente. E non solo per lo strapotere fisico. Alla struttura, Andrade unisce uno stile insolito, quasi bailado, influenzato sicuramente dalle origini brasiliane dalla danza respirata fin dai primi passi, nel Barrio di Salto. Acrobata col pallone, l’arte del calcio verdeoro mescolata e shakerata con la garra celeste. Mix ancora del tutto originale.

Gli inizi e la gloria olimpica

Se ne accorgono presto anche al Bella Vista, il primo club dove Andrade sbarca, nel 1923. Nella realtà calcistica meno nobile di Montevideo, il gigante di Salto ci mette poco a prendersi sulle spalle la squadra e guadagnarsi l’attenzione di Leonardo De Lucca, il Ct della Nazionale, che lo erge a colonna della propria mediana, nella Coppa America che l’Uruguay disputa in casa propria, nel novembre del 1923. Insieme a Vidal e Ghierra, Andrade è pedina fondamentale, in una competizione dai regolamenti completamenti diversi a quelli attuali. La Coppa se la giocano in quattro, con Argentina, Brasile e Paraguay a completare il girone all’italiana. Ma le altre tre staranno solo a guardare. La Celeste batte prima l’Albirroja, poi la Seleção e Albiceleste. Un en plein che vale la successione sul trono sudamericano ai brasiliani, grazie soprattutto ai gol di Pedro Petrone, la cui cattiveria sotto porta avrebbero conosciuto anche a Firenze, nei campionati del ’31 e del ’32. Di tutto il talento uruguagio se ne sarebbero accorti anche dall’altra parte dell’Oceano, qualche mese più tardi. Maggio 1924, Olimpiadi di Parigi. La Coppa America era servita a guadagnarsi la Francia, per via di una promessa stipulata tra i calciatori e il presidente della Federazione, Atilio Narancio: se la squadra avesse vinto, quest’ultimo avrebbe provveduto a spedirli in Europa. Neanche a dirlo, l’impegno doveva essere assolto. Ma farlo non era così semplice. Soldi ve ne erano pochi, quasi nulla per pagare biglietti per piroscafo e sostentamento in terra transalpina. Con le casse vuote, Narancio dovette ipotecare addirittura la propria casa e saldare le ultime pendenze con l’organizzazione di nove amichevoli. Gli incassi diedero modo ad Andrade e compagni di potersi finalmente imbarcare. L’Uruguay arriva in Spagna via nave, poi in Francia su rotaia. Quando mette piede a Parigi, nessuno direbbe mai possano essere una squadra di calcio. Anzi, agli occhi europei fanno quasi tenerezza. E tanta supponenza sarebbe stata punita. Come scrisse Eduardo Galeano, “L’Europa non aveva mai visto un nero giocare al calcio”. Ma neanche i suoi compagni, che alle Olimpiadi dominano fin dagli ottavi. Tre ne incassano gli Stati Uniti, addirittura cinque i padroni di casa. Gli unici problemi arrivano in semifinale, con l’Olanda rimontata da Pedro Cea e Héctor Scarone. Poi, all’atto conclusivo, lo Stade de Colombes ammira lo strapotere sudamericano, contro cui la Svizzera si arrende per 3-0.

La vita spericolata di Andrade

Ora sì che l’Uruguay lo conoscono tutti e anche Andrade, che Parigi l’ha sconvolta dentro e fuori dal campo. Se negli stadi dispensa numeri e calcio, è nei locali che José finisce col superarsi. L’aria parigina lo ispira, la vita radicalmente diversa da quella respirata in patria fa il resto. Andrade vive le partite tanto quanto la notte e in una di queste neppure fa ritorno in hotel, allarmando i vertici della Federazione. A ripescarlo tra donne e bottiglie, ci penserà il compagno Angel Romano. Ma tra tutte le gonne conosciute, la maravilla negra rimane sconvolto da quella di Joséphine Baker, il suo omologo sul palco dei club parigini. La diva bella e scandalosa, che con curve e voce aveva preso il volo dalla povertà di Saint Louis, stendendo prima Broadway e poi gli Champs-Élysées. Un misto di passioni che lo trasforma in “errante bohémien, re dei cabaret. Le scarpe di vernice presero il posto delle calzature sbrindellate che si era portato da Montevideo, e un cappello a cilindro sostituì il suo berrettino consunto. Le cronache dell’epoca salutano l’immagine di quel sovrano delle notti di Pigalle: il passo elastico da ballerino, l’espressione sfacciata, gli occhi socchiusi che osservavano sempre da lontano e uno sguardo assassino; fazzoletti di seta, giacca a righe, guanti bianchi e bastone con impugnatura d’argento”. Questo il ritratto che ne fa Galeano.

L’ascesa e la vittoria ai Mondiali del 1930

Il nuovo stile, Andrade finirà col non abbandonarlo più, neanche al ritorno in patria, dove se lo litigano le due realtà calcistiche più importanti di tutto l’Uruguay: il Nacional e il Peñarol. Se lo aggiudicano i Tricolores, ma è sempre con la maglia della Celeste che arrivano le soddisfazioni. Nel ’24 finisce in bacheca una seconda Coppa America, due anni più tardi, in Cile, diventeranno tre. Poi nuovamente Europa e Olimpiadi, ma questa volta Amsterdam. Ora gli europei sanno cosa aspettarsi, ma neanche ora possono tanto. Passata nelle mani di Primo Giannotti, l’Uruguay piega Olanda e Germania, tremando solo in semifinale. Stavolta perché davanti si ritrovano l’Italia di Augusto Rangone, che la fa soffrire con i gol di Adolfo Baloncieri e Felice Levratto. E non a caso il primo, per Gianni Brera, valeva quanto i successivi Meazza e Mazzola. Solo che neanche questo piega la Celeste. Segnano Cea, Campolo e Scarone, è finale. Lì l’Argentina tampona e strappa un 1-1. Senza supplementari o rigori, si rigioca tre giorni dopo. Questa volta sarà una sentenza uruguagia senza appelli. Solo che, dall’Olanda, Andrade torna malconcio. Contro l’Italia è finito con l’urtare un palo e l’occhio ci ha rimesso. I medici minimizzano tutto, ma il dolore lo costringe a portare occhiali scuri per proteggerlo dal sole. In più, la vita sregolata non aiuta un perfetto recupero. Ma nonostante questo, continua a godersi le notti e dominare in campo. Quando nel 1930 l’Uruguay si fregia dell’organizzazione del primo Mondiale, Andrade è ancora titolare inamovibile, a dispetto di una carriera ormai agli sgoccioli. Eppure gioca e nel girone domina Romania e Perù. Poi, in semifinale, neanche i futuri brasiliani d’Europa, la Jugoslavia, può nulla: 6-1 e finale. Allo Stadio del Centenario, il 30 luglio 1930, più di 68.000 anime assistono al 4-2 sull’Argentina. Nelle immagini reperibili, in bianco e nero, si vede Andrade soffocato dall’abbraccio della folla uruguagia.

Il ritiro e la morte di Andrade

Continuerà anche dopo quella gioia Mondiale, La maravilla negra. Nel ’31 passa anche al Peñarol, dove la stagione successiva centra il primo campionato nazionale di una carriera che proseguirà fino al 1935, anno del ritiro. Da lì in poi, i vizi prenderanno il sopravvento, depauperando il patrimonio e stremando il fisico. Tornerà frequentemente in Francia, Andrade, ancora memore degli sfarzi pasteggiati nel 1920, che finiranno per dar fondo al gruzzolo accumulato in carriera. L’Uruguay si ricorderà di lui nel 1950, nel giorno del Maracanazo. Sugli spalti c’era anche lui, in campo invece il nipote, Víctor Rodríguez, che per omaggiare lo zio aveva aggiunto Andrade al cognome paterno.

Poi un oblio rotto solo dal ’56, grazie a un giornalista tedesco, Fritz Hack, che per curiosità si spinse fino Calle Perazza, nei bassifondi di Montevideo, trovando Andrade ormai completamente cieco da quell’occhio picchiato del ’28 e logorato dall’alcol. Al fianco la sorella, costretta addirittura a rispondere alle domande formulate dall’ospite teutonico.

La fine oramai certa, arrivò il 5 ottobre dell’anno successivo. Lo ritrovarono steso in terra, per strada. Al fianco una scatola di cartone: dentro tutto l’oro vinto quando in campo aveva sconvolto in mondo. L’ultimo atto del “primo idolo internazionale del calcio”. Parola di Galeano.

 

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