Jerry Quarry, bianco per caso
Vederlo davanti ad Ali, con i suoi passi prevedibili progressivamente invischiati nella ragnatela del più grande di tutti, fa riflettere sul fatto che dovremmo riconsiderare, almeno un po’, il concetto che abbiamo degli eroi: perché non sono necessariamente i più belli, non sempre i più forti. Sono eroi anche quelli dei quali arrivi a pensare dove trovino il coraggio per presentarsi a quegli appuntamenti che già a un miglio di distanza assomigliano a un vuoto a perdere.
Ali esibisce lo “shuffle”, il suo celeberrimo passo di danza che diventerà anche un brano musicale, oltre che una forma di street art; abbassa le braccia lungo il tronco come a significare: – Posso anche ordinare un caffè prima che un tuo diretto possa arrivare da queste parti… -; il pubblico nel frattempo ride e applaude per tutto il teatro che il più grande concede alla folla. I fischi e i mugugni sono tutto per quella rossa frangetta irlandese, per le lentiggini del viso che si sforza di restare imperturbabile mentre il quadrato diventa ogni minuto di più il cunicolo senza uscita dove si infila il sorcio; per la muscolatura pallida che appare di misura più ridotta al cospetto del Re, monumentale quando, più alto di tutta la testa, allunga i suoi jab come fruste d’ebano. Due volte, la prima nel 1970 ad Atlanta, tre riprese e un taglio in fronte alla terza, come la riga di un pennarello rosso a unire i puntini di troppe lentiggini, perché l’arbitro possa far proseguire. La seconda due anni dopo, a Las Vegas, col titolo in palio. Fino alla settima, quando è Ali stesso a invocare l’interruzione, non sentendosela più di martoriare l’irlandese con l’elastico della sua distanza variabile.
Se per i neri la boxe negli anni sessanta e settanta era la via per uscire dal ghetto, i bianchi sapevano di doverci entrare, quando incrociavano i guantoni contro le leggende afroamericane. Più bianchi ancora della proverbiale mosca rara, quasi sempre apparivano fuori posto, sin dal momento in cui toglievano la vestaglia per aspettare la chiamata dell’arbitro.
Jerry Quarry, che non sapeva di essere un eroe. Sapeva soltanto di avere bisogno di continuare a cambiare pneumatici alla rimessa degli autobus, anche dopo i primi incontri da professionista, nel 1965, perché le borse bastavano a malapena a coprire le spese.
Aveva vent’anni, fratelli prima e dopo di lui, una vita da girovago assieme alla famiglia: nato a Bakersfield, California, nel 1945, da una madre succube e da un padre autoritario, che gli fa indossare i guantoni quando ha più o meno cinque anni. Tanti spostamenti con la famiglia, sempre in cerca di condizioni migliori: la versione proletaria del sogno americano, dove il lieto fine è una variabile poco frequente. E un pugno via via più potente, un modo di combattere quasi privo dell’arte della scherma, condotto all’attacco; agli attacchi esposto.
Come peso massimo, Quarry l’irlandese scala posizioni e si mette in luce negli anni tra il 1968 e il 1971: inevitabile che una certa America “wasp” (white – anglo – saxon – protestant) veda in lui la “speranza bianca” da opporre ai dominatori neri. Quel soprannome l’ha sempre fatto incazzare; lui che aveva avuto fin dai primi anni un’esistenza molto più da nero dello rispetto allo stesso Ali: spostamenti da migrante e lavori saltuari. Sembra che persino gli incappucciati del Ku Klux Klan gli facciano arrivare attestati di stima. E ora dovrebbe combattere per rappresentare gente nata e rimasta sempre col culo al caldo. Nulla di più falso, di più artefatto dai mass media che mestano nel torbido della questione razziale. Jerry Quarry combatte per guadagnare, per fracassare le costole alla miseria che gli ha dormito accanto per tutta l’infanzia e l’adolescenza: mai milioni di dollari furono più meritati; perché Quarry, un metro e ottantatré contro giganti come Ali o Ken Norton, o davanti a un martello pneumatico come Joe Frazier, oppure battendo due volte Floyd Patterson, ha sempre preso più pugni che soldi e soltanto i primi gli sono rimasti addosso. “Demenza pugilistica”: non c’è bisogno di spiegazioni ulteriori; una specie di Alzheimer dovuto ai colpi presi, quelli che dopo certi incontri non ti lasciano più, anche quando i tagli si chiudono e gli zigomi si sgonfiano.
Mentre i soldi se n’erano andati, come schiuma sotto la doccia. E non si capiva, quando dovette mettersi a fare il venditore di birra, poco dopo il ritiro, nel 1983, se fossero più le pinte che distribuiva o quelle che ingurgitava.
Si era ripresentato sul quadrato a quarantasette anni, per alzare un po’ di dollari: sei riprese contro un picchiatore come Ron Cranmer, altri spilli di dimenticanza infilati nel cranio.
Tutto ciò che di buono aveva realizzato coi pugni sul ring, dove aveva dato e ricevuto il meglio di sé, la vita se lo sarebbe ripreso a calci, assieme al poco tempo che gli spettava. Se n’è andato a cinquantatré anni, Jerry Quarry, senza più essere in grado di capire nemmeno che fosse troppo presto.
Qualche anno prima, nel 1995, era stato inserito nella “Hall of fame” della boxe: mentre suo fratello lo aiutava a stringere mani durante la cerimonia di investitura, dal suo sguardo assente si capiva che, quando il mondo si stava ricordando di lui, lui non era più in grado di ricordarsi del mondo.