Jack Grealish: l’Orfeo di Birmingham
Scorrendo le classifiche dei top campionati in giro per l’Europa non si può che restare ammaliati dal richiamo della Premier League ciò che colpisce principalmente guardando infatti meramente la posizione in tabella delle contendenti al trono è la presenza, tra le maglie delle grandi di diverse compagini che potremmo definire underdog.
Il Leicester dell’immortale Vardy, l’Everton di Carlo Ancelotti e Dominic Calvert Lewin e, a presidio della zona Europa League, come Cerbero alle porte dell’inferno c’è l’Aston Villa capitanata dal suo paladino: Jack Grealish, l’Orfeo di Birmingham.
Fascia da capitano al braccio, numero 10 sulle spalle, calzettoni abbassati che profumano di vintage ma che, in realtà sono un incontro tra una lavatrice sbagliata ed una superstizione divenuta poi definitiva, accompagnati da un cerchietto volto a contenere una capigliatura perfettamente ordinata dalla piastra. A questo look non esattamente da calciatore del ventunesimo secolo si aggiunge un’abbronzatura costante. Eppure, Jack Grealish è nativo di Solihull, sobborgo di Birmingham, città sempre troppo sottovalutata dal football d’oltremanica ma che, oltre a portare con sé un notevole bacino d’utenza e a rappresentare uno dei derby più classici del paese ha prodotto, cullato e lanciato uno dei prodotti più interessanti del panorama calcistico attuale.
Il numero 10 è l’idolo locale, non soltanto perché immedesimatosi completamente in quella bolla claret and blue che lo avvolge e lo protegge dalla tenera età di 8 anni ed a cui lui si è elevato a massima espressione attraverso i risultati sul campo ma perché unico nel suo genere della nidiata di talenti a disposizione dei Tre Leoni.
La sua qualità tecnica sopraffina, incastrata in un fisco compatto ma non particolarmente prestante dal punto di vista della struttura gli consente di essere un 10, un produttore seriale di assist ed occasioni da gol, che può giocare come tale, che ricerca l’assolo ma è capace allo stesso tempo di cantare in coro senza sovrapporsi ai compagni ma aiutandoli a migliorare.
Sul prato verde però il capitano dei Villans è camaleontico, può cambiare spartito agendo da 8, lo si nota per la quantità di palloni toccati durante una partita e la facilità di calcio da fuori area, un giocatore, che grazie alla sua polivalenza tattica è attore perfetto del calcio contemporaneo, un paradiso di tecnica ed intelligenza calcistica.
La dimensione culturale del capitano del prodotto dell’accademy dei Lions è però quella che fa la differenza, che sporca il talento con una pennellata di nero: un’immagine tipica del calciatore british anni 90: Grealish ha la faccia del bad boy, le fattezze di un Tony Adams, di un Gazza Gascoigne, è l’eroe fiabesco che raggiunge la persona amata dopo aver battagliato contro mille peripezie, aiutato da un unico oggetto magico: il talento.
Eppure di quelle avventure attraverso cui l’eroe ha raggiunto la Premier insieme all’amata, il suo Aston Villa ce ne sarebbero talmente tante da poterne creare il profilo ruvido di un ragazzo in balia degli eventi, trasportato dall’onda dell’emotività e dai fiumi di birra per cui da qualcuno era stato bollato come alcolizzato, un vizio quello della bottiglia che potrebbe portarlo verso l’inferno, così come ha fatto con i grandi nomi citati sopra.
Jack ha sempre risposto con un sorriso ironico ed un gesto eroico sul campo, come a voler ricordare di essere l’eroe della sua storia. Come quando Paul Mitchell, tifoso dei rivali cittadini il 10 marzo 2019 riuscì ad eludere gli steward ed arrivato in campo a sferrare un gancio destro da k.o. tecnico alla mascella del capitano che va a terra, sorride, si rialza ed al minuto 67 manda a terra i suoi avversari con il sinistro all’angolino che vale la vittoria del derby, poi una corsa folle verso il paradiso d’amore che la sua gente gli regala, ci si tuffa dentro, torna in paradiso.