Poche settimane dopo la strage del torneo di calcio nel villaggio di Iskandariya, nel quale a fine marzo l’Isis uccise quarantuno persone e ne ferì più di cento, il terrore del califfato torna a colpire, in Iraq, in un bar di Balad, ottanta chilometri a nord di Baghdad, ritrovo abituale di tifosi del Real Madrid. Ancora il calcio nel mirino dei terroristi, e in maniera tutt’altro che collaterale: non il grande calcio, ma il calcio alla base, alle sue radici: la passione. Colpire la passione, come già a Parigi: questo l’obiettivo dei terroristi dello Stato Islamico.
“La gioia come nuovo obiettivo sensibile”, scrivevamo in occasione della strage al torneo di calcio. E la triste conferma della strategia dell’Isis, specie nel martoriato territorio iracheno, è nel sangue e fuoco dentro al bar dei tifosi delle merengues: il calcio non è quello (o non soltanto) quello dei blindatissimi grandi eventi. Nel calcio il terrorismo di matrice islamica non vede solo l’opportunità di far quante più vittime possibili, raccolte tutte assieme e pronte a saltare in aria, o essere crivellate di colpi. Il calcio è l’obiettivo. Specie in Iraq, dove, come abbiamo raccontato, i ragazzi continuano a giocarlo con fervore, gli appassionati a dibatterne come forse in nessun altro paese al mondo, ad ogni angolo di strada, dentro ogni bar, accaldandosi per le squadre occidentali, appassionandosi ai grandi campioni. Come in quel caffè di Balad, colpito in maniera semanticamente assoluta.
Il calcio non rappresenta, per i terroristi del califfato, solo il grande stadio, il grande contenitore con tante vittime sacrificali pronte all’uso. Il calcio non è il mezzo. Il calcio è la vittima. Non solo perché peccaminoso per l’ala wahhabita dell’Islam, come l’hard rock che suonavano quella sera gli Eagles of Death Metal al Bataclan. Lo è perché è ciò che di più pericoloso esista per il terrore: è sogno, speranza, aggregazione, emancipazione, occidentalizzazione. Tutto quello di cui l’Isis non può non aver paura.