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Inter – Liverpool, quando l’epica rimonta si giocò anche sugli spalti

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Inter – Liverpool, quando l’epica rimonta si giocò anche sugli spalti

Il 12 Maggio 1965 a San Siro in occasione della semifinale di ritorno di Coppa dei Campioni tra Inter e Liverpool andò in scena una delle più grandi rimonte della storia del calcio. Per ricordarla, riviviamo quell’incredibile notte ancora oggi stampata nella memoria dei tifosi neroazzurri.

L’etimo delle parole rivela l’essenza del significato. E il sostantivo “tifo” deriva dal greco phos, “febbre”. Indica una passione assoluta. Quella identificazione irrazionale con i colori, la storia e l’identità della propria squadra. Un distillato di fatalismo e fanatismo in novanta minuti tra amore e sofferenza, menzogna e gioia. Chiunque sia mai entrato in uno stadio conosce l’importanza del tifo, in quanto elemento costitutivo dello spettacolo del calcio.

Siamo nel maggio del 1965, semifinali di Coppa dei Campioni. La sorte ha messo di fronte il Liverpool, alla sua prima partecipazione, e i detentori del titolo dell’Inter. Andata il 4 maggio in Inghilterra, ritorno il 12 in Italia.

La città del Merseyside vive un lungo periodo di crisi. Fabbriche chiuse, porto in declino e disoccupazione dilagante. Solo due grandi passioni: musica e calcio, ovvero Beatles e Liverpool F.C., società che vive una rinascita dopo anni bui. L’allenatore scozzese Bill Shankly prende la squadra nel 1959. In tre stagioni riporta i Reds in Prima Divisione e nel 1963-1964, dopo diciassette anni, conquista il sesto titolo di campione d’Inghilterra. Il Primo maggio 1965 arriva la prima FA Cup, a Wembley, davanti a 100mila spettatori. 2-1 ai supplementari al Leeds United. I tifosi del Liverpool giunti fino a Londra intonano You’ll Never Walk Alone, a sottolineare una fedeltà assoluta, che dal 1964 riecheggia nella Kop, la curva del tifo più acceso di Anfield.

Dall’altra parte ad attenderli c’è la Grande Inter, guidata dal Mago Helenio Herrera, campione d’Europa e del mondo in carica. Semplicemente la squadra più forte.

È il 4 maggio, Anfield Road. Negli occhi dei supporters dei Reds è ancora viva l’impresa di tre giorni prima. Le cronache parlano di 54.082 spettatori in uno stadio gremito letteralmente in ogni ordine di posto. I cancelli aprono alle 15, ben 4 ore e mezza prima dell’inizio della partita, fissato per le 19.30. Ma già alle 18 si registra il quasi del tutto esaurito. L’impressione è quella di una immensa marea umana pronta a riversarsi sul campo da un momento all’altro. Non ci sono protezioni o barriere, si gioca con le grida dei tifosi a distanza ravvicinata. I tifosi dell’Inter, giunti al seguito della squadra, rimangono attoniti di fronte a un tale spettacolo. Anche i giocatori nerazzurri, seppur campioni navigati, sentono una pressione mai provata. In quella che tuttora è considerata da molti supporters del Liverpool come la notte più bella della gloriosa storia di Anfield l’Inter, uscita dal tunnel, viene accolta con un ruggito tremendo dalla Kop. La partita è a senso unico. Al 4′ Hunt porta in vantaggio i Reds. Ad ogni singola azione il pubblico esplode in boati terrificanti. Un senso claustrofobico accerchia l’undici nerazzurro. Dopo l’illusorio 1-1 di Mazzola al 10′, il Liverpool domina e al 34′ arriva il 2-1 di Callaghan. Sugli spalti i cori sono senza sosta. Goal annullato ai Reds e tentativo di invasione sventato.

La pressione sul volto degli interisti si fa evidente. Nel secondo tempo dalle gradinate cresce l’invocazione del centravanti Ian St. John, The Saint, chiamato con il coro When the Saints go marching in. La risposta non si fa attendere molto, al 75′ arriva il suo definitivo 3-1. Sul finire della partita il pubblico scoppia in un fragoroso Go back to Italy. Insulti, derisione e disprezzo si riversano sugli italiani. I “suonatori di mandolino” devono tornarsene a casa: Anfield canta Go home Italians sulle note di Santa Lucia. Il grido di battaglia Ee-aye-addio, che aveva accompagnato il successo in FA Cup, segna la conclusione anche di questa storica impresa. I campioni del mondo sono stati sconfitti e umiliati. I tifosi della Beneamata escono dai cancelli a testa bassa, disciplinati e ordinati come lo sono stati per tutti i novanta minuti. In testa il frastuono e il desiderio di vendetta, non solo sul campo ma anche sugli spalti, dove il tifo della Kop si è rivelato un sostegno determinante per la squadra inglese.

Il ritorno sarà più di una partita di calcio tra Inter e Liverpool. È ormai una sfida tra città, capitali europee del tifo di quegli anni. È una battaglia tra popoli: gli inglesi, inventori del calcio, e gli italiani, dominatori del pallone.

Una settimana separa la disfatta dall’appuntamento con la storia. Herrera, rimasto impressionato in prima persona da Anfield, esorta i suoi tifosi ad una simile prova di fedeltà e fervore e chiama alle armi per la “partita dell’orgoglio”. Ha inizio la campagna “Grida per l’Inter” in cui ci si prepara ad un tifo ininterrotto, caloroso ed esplosivo. Lo scontro diventa totale e viene attuata una azione di discredito dell’immagine del Liverpool: i tifosi inglesi sono etichettati come dei “selvaggi ubriaconi” e i giocatori come dei “dopati”. La risata di reazione dei Reds all’arrivo a Linate nei confronti di una manifestazione di alcuni sostenitori dell’Inter non farà che caricare oltremisura l’ambiente, tanto da richiedere l’intervento del vicepresidente Peppino Prisco per calmare gli animi in vista del match.

Herrera è convinto di vincere, come Shankly è d’altronde sicuro di passare il turno. Il tecnico scozzese rincara però la dose screditando il gioco dell’Inter e sminuendo il tifo di San Siro. I Reds non saranno certo intimoriti dal tifo milanese avendo i supporters più caldi d’Inghilterra ed essendo usciti trionfatori dalla cathedral of football di Wembley. Ma la sera del 12 maggio la Scala del calcio è uno spettacolo di indicibile bellezza. Un catino che ribolle già da due ore prima del fischio di inizio.

Al momento dell’ispezione del campo, gli inesperti giocatori del Liverpool si presentano in abiti civili con le mani in tasca. Pochi secondi e ogni granello di sicurezza viene spazzato via dal rumore dello stadio. Alzato lo sguardo, la notte non ha più cielo. San Siro è una autentica bolgia tinta di nerazzurro. 90.000 spettatori, di cui 76.601 paganti per un incasso record di più di 162 milioni di lire, sembrano essere un’orda infinita di voci nascoste nelle tenebre della caligine creata dai fuochi d’artificio e dai razzi esplosi a intervalli regolari. Lo stadio è senza confini, il tifo è assordante. Gli unici volti visibili in quegli abissi sono carichi d’odio e ringhiano al di là delle inferiate a bordo campo. All’ingresso delle squadre le scintille dei fuochi d’artificio piovono sui giocatori. Razzi e fumogeni esplodono ovunque, sul campo come sulle gradinate. Enormi nuvole di fumo di diversi colori si sollevano e da ogni dove squillano trombe e sirene. I 90mila scandiscono a ritmo cadenzato “In-Ter, In-Ter”. È il segnale, sono le 21.15, si aprono le porte dell’inferno. Il Liverpool è disorientato e atterrito. Bastano nove minuti per annullare lo svantaggio iniziale. All’8′, una punizione “a foglia morta” di Mariolino Corso porta i nerazzurri in vantaggio e dopo solo un minuto Peiró sigla il 2-0 con un goal di rapina. I Reds provano a reagire ma i fischi ad ogni singolo pallone toccato sono incessanti.

Nel secondo tempo la Beneamata, spinta dai fragorosi cori di San Siro, riprende a giocare con più decisione. Al 62′, a conclusione di una azione da antologia, il tiro di Facchetti trafigge la rete: 3-0. Lo stadio scarica tutta la tensione accumulata in  uno spettacolo quasi terrificante che esplode in un tonante suono di urla, trombe e petardi. Al fischio finale si scatena il pandemonio e i falò sulle gradinate segnano l’approdo in finale in una esibizione di isteria di massa. L’impresa è compiuta, certo, ma bisogna ancora accompagnare gli inglesi verso la strada di casa nel modo giusto e così partono a sorpresa le note di When the Saints go marching in.

«Arrivati a San Siro consegnai allo speaker dello stadio un 33 giri: “When the Saints go marching in” di Louis Armstrong, l’avevamo nelle orecchie dall’andata. Gli dissi di farlo suonare alla fine, dopo la nostra vittoria. “Uè Mazzola, ma te se matt” mi rispose lui. Non ero matto, ci credevo. E non ho più rivisto quel disco». (Sandro Mazzola)

 

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