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Ilicic, uno solo come noi

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Ilicic, uno solo come noi

Minuto 82 di Atalanta – Empoli, al momento in cui Gasperini tira fuori dalla contesa Pasalic, a bordo campo si rivede Josip Ilicic. Riemerso dai propri abissi, ancora una volta. Quella definitiva, è l’augurio che gli facciamo; ma può saperlo soltanto lui. Anzi, sentirlo, perché sapere che la nostra mente non ci farà più alcuno sgambetto è un lusso che neppure il più ricco fra noi potrà mai garantire a se stesso.

A proposito di ricchezza: ci sembra già di sentirlo, il commento idiota di chi si chiederà, oltre il più populista dei commenti populisti: – Ma cosa avranno mai da deprimersi, con tutti i soldi che guadagnano? Magari ce l’avessi io la depressione sua… -; come se non sapessero che la più democratica delle cose, su questa terra, è che la tristezza e l’abbattimento, a maggior ragione quando apparentemente immotivati, non controllano mai il conto in banca di quelli alla cui porta vanno a bussare.

Nel finale di una partita che avrebbe poi sancito definitivamente il fallimento degli obiettivi stagionali per i nerazzurri bergamaschi, si sono riaccesi i riflettori su un uomo che già in un paio di occasioni si era sottratto, per necessità e per un tipo di dolore al quale solo lui saprebbe dare un nome, al fascio di luce che tutti sognano, al quale lui era abituato. Diventare forestieri, finanche apolidi nell’umore e nell’istinto di pensare al futuro, in quello che fino a poco tempo prima è stato il proprio habitat naturale. Questo accade quando l’io svanisce dietro la nebbia di una tristezza immotivata, di paure e impedimenti che agli occhi degli altri non hanno né motivo né nome. Per questo, e per un minimo tributo alla decenza, tutti dovrebbero astenersi dai giudizi non richiesti, o dalla più imbecille delle morali.

Qualcuno lo ha visto un poco imbolsito, sostenendo che i suoi 79 chili di peso forma sarebbero diventati qualcuno in più, a occhio; qualcun altro, redigendo le pagelle, ha scritto che con lui in campo in quei minuti finali si è visto qualcosa in più. Briciole di normalità, di quelle che un tempo erano le soddisfazioni o le contrarietà. Non si può che augurare all’uomo, indipendentemente da quella che sarà la durata del calciatore, trentaquattrenne, che tornino ancorate al suolo, che ci sia erba tagliata o meno, le questioni della vita. Ben sapendo che qualsiasi terra sarà terra straniera, per l’uomo che non riconosce più se stesso.

La verità, ammesso che una se ne possa riconoscere, semmai esiste, è che ogni individuo è imperscrutabile agli occhi del sé, figurarsi allora per lo sguardo di chi vede le cose e le persone attraverso il proprio metro di giudizio, di valori, di quelli che crediamo essere pensieri obiettivi. Una delle cose buone apprezzate quest’anno nel calcio italiano è stata proprio la protezione che Gasperini e l’Atalanta hanno avuto per Ilicic; il modo in cui hanno sempre evitato di parlarne, salvo un passaggio dialettico volutamente espresso dal tecnico in una sola occasione. Perché ogni volta che un uomo soffre in quel modo, a maggior ragione quando tutti intorno a lui si sentono legittimati a pensare che non gli manchi nulla per essere felice, non sa spiegarsi il perché. Sa solo che sta soffrendo. Figuriamoci, allora, se possono spiegarlo gli altri, ossia noi tutti, che la cosa più sensata che dovremmo fare è restare in silenzio, riflettendo sul fatto che soffriremmo allo stesso modo, senza saperci spiegare perché, senza riuscire a dire come e nemmeno, all’inizio, a chiedere aiuto.

Romano, 47 anni, voce di Radio Radio; editorialista; opinionista televisivo; scrittore, è autore di libri sulle leggende dello sport: tra gli altri, “Villeneuve - Il cuore e l’asfalto”, “Senna - Prost: il duello”, “Muhammad Ali - Il pugno di Dio”. Al mattino, insegna lettere.

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