“Se avessi la macchina del tempo, tornerei indietro e Baggio eccome se lo prenderei”. Così parlò Carlo Ancelotti. Era il 2009 e l’allenatore emiliano riconobbe con schiettezza come, fino ad allora, l’errore più grande della sua carriera fosse stato il rifiuto all’acquisto di Roberto Baggio quando era sulla panchina del Parma a metà anni Novanta.
Agli occhi della maggioranza dell’opinione pubblica, una scelta clamorosa e controversa ancora oggi. Per capire meglio come fu possibile, ritorniamo a quel luglio 1997, entrato nei libri di storia dello sport per l’oro di Annarita Sidoti nella 10 km di marcia ai Mondiali di Atene, la vittoria ai Giochi del Mediterraneo dell’Under 21 di Marco Tardelli e l’urlo a pugni chiusi di Marco Pantani in cima all’Alpe d’Huez.
In quei giorni, Roberto Baggio attraversava uno dei periodi più opachi della sua carriera. Il biennio al Milan si era consumato fra uno scudetto al primo colpo, ma costellato da troppe polemiche per le troppe sostituzioni riservatigli da Capello, e un secondo anno disastroso. I rossoneri avevano disputato la peggior stagione dal loro ritorno in serie-A: undicesimo posto in campionato, fuori al primo turno di Champions League, umiliazione interna (1-6) per mano della Juventus (ancora però non si sapeva che il calcio doveva uscire dalle farmacie…), uno spogliatoio frammentato e due grandi allenatori (Tabarez e Sacchi) incapaci di trasformare la deriva di un gruppo a fine corsa in un’onorevole passo d’addio. In questo marasma, Baggio fu uno dei pochi a salvarsi, soprattutto considerando l’esiguo minutaggio avuto per i problemi personali con l’ex ct azzurro.
Per il riscatto, Berlusconi e Galliani richiamarono Capello, che subito sentenziò come nel suo Milan non ci sarebbe stato spazio per Baggio. Che però voleva giocare perché nel 1998 ci sarebbe stato il Mondiale in Francia. Si fece allora avanti il Parma, arrivato secondo a due soli punti dalla Juventus e prossimo al preliminare di Champions League. I gialloblu volevano compiere il definitivo salto di qualità sulla scena nazionale e internazionale, dunque quale miglior occasione per riuscirci se non con l’ingaggio del calciatore italiano più forte in circolazione?
L’accordo fu presto trovato: a Baggio, due miliardi e mezzo a stagione per tre anni; al Milan, si dice, ne sarebbero andati sei. Era il 9 luglio e mancava solo la ratificazione dell’affare quando da dentro Collecchio si levò una voce di dissenso: quella di Carlo Ancelotti, l’allenatore di quel Parma. I suoi ragazzi avevano conquistato il miglior risultato nella storia del club con un’esemplare interpretazione del 4-4-2 di sacchiana memoria, eletto definitivamente a stella polare con la cessione di Zola al Chelsea perché incompatibile con Chiesa e Crespo. Incagliata nella bassa classifica, da quel momento la squadra aveva rimontato fino a sfiorare lo scudetto.
Come il fantasista sardo, anche Baggio era un trequartista. E per stare nel 4-4-2, avrebbe dovuto adattarsi a fare il quarto centrocampista o la seconda punta. Ma, soprattutto, avrebbe dovuto giocarsi il posto alla pari con i compagni. Queste, in sintesi, le convinzioni esposte da Ancelotti al presidente Tanzi. A proposito: ma non è che la proprietà, più che al calciatore, era interessata al marchio visto che il volto di Baggio sarebbe stato uno straordinario testimonial per i prodotti Parmalat? Dopotutto, i suoi problemi col Milan erano noti da tempo e se interessava l’atleta, perché pensarci soltanto al termine di una campagna acquisti impostata, e a ragion veduta, sul 4-4-2? L’arrivo di uno con le sue qualità avrebbe invalidato quella strategia e comportato inevitabili scombussolamenti tecnici. La riprova si ebbe a Bologna, dove Baggio approdò dopo aver tratto il Parma d’impiccio, e d’impaccio, con la consueta classe: “Se devo combattere per un posto in attacco, resto al Milan”.
Con i rossoblù di Ulivieri, Roby segnò ventidue reti, fu il miglior marcatore italiano e spiccò il volo per il Mondiale. Ma nel girone d’andata, nemmeno le sue magie tennero lontano dalla zona retrocessione un collettivo collaudato e ribattezzato “la cooperativa del gol”. E non c’è da stupirsi. Perché gli equilibri, in una squadra, sono sempre molto delicati.