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9 anni di Fair Play Finanziario: Il “Trattato di Maastricht” del Calcio europeo

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Il 14 Settembre 2009 la UEFA si esprimeva definitivamente su una proposta per limitare lo strapotere del denaro nel mondo del calcio: nasceva così il Fair Play Finanziario, lo strumento per rendere il pallone più equo e “democratico”. Ma ancora si fa fatica a capirlo pienamente. Ecco come funziona.

C’era una volta il calcio dove la parola “rigore” significava soltanto il tiro dagli undici metri, “fair play” voleva dire il comportamento corretto di un giocatore in campo e “stabilità” era l’equilibro tattico tra i vari reparti (difesa-centrocampo-attacco).   Non c’era niente che avesse a che fare  con i bilanci delle società,  le entrate e le uscite finanziarie. Tutto questo fino all’estate del 2009. Quando Florentino Perez, venne nuovamente eletto il presidente del Real Madrid. Erano gli anni in cui il Barcellona di Pep Guardiola, che era appena diventato nuovamente campione d’Europa (conquistando la terza Champions League) sembrava vincere le partite ancora prima di scendere in campo. Troppo più forte degli altri. Per questo che quando Florentino Perez venne di nuovo rieletto alla presidenza del Real Madrid volle spendere in un’estate sola la stratosferica cifra di 250 milioni di euro. Regalando all’altro ingegnere, Manuel Pellegrini, diventato nel frattempo neo tecnico dei blancos, i vari Cristiano Ronaldo (pagato 95 milioni), Ricardo Kakà (65) e Karim Benzema (36).  Eppure, mentre a Madrid qualcuno brindava alla sontuosa campagna acquisti di Florentino, nella cittadina svizzera di Nyon, sede della UEFA qualcun altro storceva il naso. “Il calcio così non può andare avanti” “Le società devono iniziare a spendere non di più di quanto guadagnano”.

C’era chi la pensava in questo modo e tra questi anche il presidente dell’UEFA Michel Platini. Il quale, di lì a poco avrebbe deciso che il calcio europeo  sarebbe cambiato. E anche nello sport diventato negli anni una delle filiere economiche più ricche del pianeta (solo in Italia il giro d’affari è di 13,7 miliardi secondo l’ultimo Report della FIGC) sarebbe comparsa la parola “austerità”. Sarebbe nato il cosiddetto “fair play finanziario”: il pacchetto di norme finalizzato a garantire la stabilità finanziaria dei club. Una sorta di “Trattato di Maastricht” del calcio europeo. In base al quale a partire dal 2011, le società di calcio delle federazioni iscritte all’UEFA, avrebbero così dovuto dimostrare di essere “solide” (finanziariamente parlando)attraverso il rispetto di alcuni “parametri”. Primo tra i quali l’assenza di debiti arretrati verso altre società. Tra le società di calcio del Vecchio Continente dunque, non ci dovevano essere vecchie pendenze. Inoltre, tutte queste società avrebbero dovuto garantire una certa trasparenza di carattere informativo. Infine, sarebbe stato introdotto l’obbligo di raggiungere il pareggio di bilancio entro un determinato periodo. Come i governi dell’unione monetaria, anche le società di calcio avrebbero dovuto rispettare il vincolo delle entrate uguali alle uscite.

Proprio il Pareggio di Bilancio è il punto sul quale Platini e gli altri del Comitato Esecutivo UEFA, hanno fortemente insistito. Per assicurare che appunto, le società non in regola (cioè quelle che non avessero presentato ricavi della “gestione caratteristica” ossia merchandising, calciomercato, biglietteria eccetera tali da garantire altrettante spese), non avrebbero potuto spendere (e dunque fare campagna acquisti) anche e soprattutto se di proprietà dello sceicco di turno. In sostanza come disse una volta lo stesso Platini, il pareggio di bilancio avrebbe rappresentato “l’unico metodo certo perché le società sopravvivano”. Tuttavia, proprio come ai governi, anche ai club sarebbe stato riconosciuto un margine di “flessibilità”. I presidenti delle società europee, avrebbero avuto a disposizione una soglia di “deficit” con un orizzonte triennale. Alle società veniva così concesso di presentare un bilancio in “rosso” ma non oltre i 30 milioni di euro nel triennio. Proprio il “margine” è diventato negli anni un motivo di battaglia anche in sede legale. Con un ricorso, accolto dal Tribunale di Bruxelles, che era stato presentato dall’avvocato Dupont (lo stesso della sentenza Bosman) e nel quale veniva contestata la legittimità della soglia dei 30 milioni. L’UEFA ha potuto mantenere il margine anche per il triennio 2015-18 (come riporta tra gli altri anche il sito www.tifosobilanciato.it). Vennero introdotte poi due importanti novità. Si tratta delle due procedure della voluntary agreement e del settlement agreement: vale a dire accordi, rispettivamente di tipo volontario e di carattere transattivo che le società possono richiedere nei confronti dell’UEFA. Nel primo caso (nel caso della voluntary agreement), le società potranno così presentare all’UEFA un piano di investimenti (con una proiezione in deficit per l’anno corrente) nel quale dimostrare il piano di rientro negli anni successivi.

Ad esempio, una società che vuole effettuare un investimento importante (esempio l’acquisto di un calciatore) può presentare, senza aspettare la verifica ex post dell’UEFA, un piano ex ante che dimostri nel dettaglio che i  ricavi futuri generati dall’investimento effettuato, sono tali da consentire nell’arco di un quadriennio il rientro dei capitali impiegati. Così facendo, quella società, eviterebbe in futuro di essere sanzionata. Questo tipo di accordo, tuttavia, non è accessibile a tutte le società. Potranno ottenerlo soltanto coloro che nell’anno precedente avranno dimostrato di essere “virtuose” attraverso il rispetto di alcuni parametri: ossia l’ottenimento della “licenza UEFA”; il rispetto delle regole del FPF; oppure, m è un  caso limite, aver subito nell’anno corrente un’importante variazione societaria con altrettanta variazione del capitale sociale. Di altro genere è invece un accordo di tipo “settlement.  In questo caso, non è la società a farsi avanti da sola ma è l’UEFA ad intervenire chiedendo, al termine di una verifica, alla società di mettersi in regola. Nel settlement agreement le società “viziose”, cioè quelle non in regola con il FPF (come ad esempio il PSG), potranno evitare le sanzioni previste ma soltanto presentando un adeguato piano di rientro (con il rispetto di altrettanti vincoli imposti dall’UEFA). Esempi pratici di accordi “settlement” sono stati  le procedure che hanno riguardato il PSG e il Manchester City, società alle quali l’UEFA aveva imposto pesanti sanzioni, dovute al mancato rispetto delle norme sul FPF. Sia i citizens che il PSG avevano allora richiesto all’UEFA, attraverso la stipula di un accordo di tipo settlement, di ridurre drasticamente la portata delle sanzioni, garantendo nel corso del “periodo di osservazione”, il raggiungimento di alcuni obiettivi richiesti: dalla riduzione dei giocatori in rosa, al contenimento del monte ingaggi,  per arrivare alla fissazione di un cap (un tetto in termini di costo massimo)  per l’acquisto di un calciatore. E l’UEFA dopo aver verificato i buoni propositi delle due società, ha deciso così di ridurre le sanzioni. In sintesi, se attualmente il PSG o il Manchester City (o chi per loro nella loro stessa situazione) volessero acquistare un campione costosissimo del calibro di Cristiano Ronaldo non potrebbero farlo senza privarsi di un Cavani oppure di un Aguero (calciatori altrettanto costosi).  Con le nuove regole del FPF, non ci doveva essere più spazio per le spese folli dello sceicco di turno. Non importa che si chiami Al Thani oppure Mansour.  Ce n’est pas possible. Come direbbe appunto, Michel Platini. Ma il recente passato ci ha fatto capire che, attraverso giochini di vario genere è possibile, in buona sostanza, ancora tutto.

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