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Il cuore di fuoco nel silenzio del ghiaccio: Colin O’Brady e la traversata dell’Antartide

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Il cuore di fuoco nel silenzio del ghiaccio: Colin O’Brady e la traversata dell’Antartide


E’ stato un Natale alternativo e memorabile quello trascorso dall’ultra atleta statunitense Colin O’Brady. Partito il 3 novembre scorso dal campo di Union Glacier, il 26 dicembre è arrivato alla barriera di Ross sull’Oceano Pacifico, compiendo la traversata dell’Antartide in solitaria e senza assistenza, realizzando un’impresa di valore assoluto che dopo due giorni è stata conclusa anche da Louis Rudd, capitano dell’esercito britannico e già esperto esploratore con più di 3.000 chilometri percorsi nei territori del continente bianco.

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Natale memorabile, si diceva. Sì, perché O’Brady la mattina del 25 dicembre, mentre preparava la colazione, è stato folgorato dall’impossibile idea di completare gli ultimi 125 chilometri della traversata in una volta sola. Impresa impossibile solo fino a quando, dopo poco più di 32 ore, non si è accorto di averla trasformata in realtà, arrivando a destinazione senza dormire, dopo 54 giorni e circa 1.600 chilometri percorsi tra neve e ghiaccio dalla costa atlantica a quello pacifica dell’Antartide passando per il Polo Sud.
La traversata, come accennato, è stata affrontata in solitaria: O’Brady e Rudd, una volta partiti, hanno seguito due percorsi paralleli che li hanno tenuti lontani, senza la possibilità di interagire e darsi sostegno nei momenti difficili. Inoltre, le regole di ingaggio prevedevano che la loro azione fosse senza supporto, ossia che non ci fossero forniture di cibo e attrezzature ulteriori rispetto a quelle caricate nella slitta (pulka) che i due hanno spinto con le loro sole forze: non è stato utilizzato, infatti, nessun apparato di sostengo per alleviare la fatica, come una vela (kite) che potesse sfruttare la forza del vento. Il tutto si è riflesso anche sulle condizioni igieniche: l’abbigliamento (a parte un paio di calzini di riserva che O’Brady ha preferito portare) non prevedeva indumenti di ricambio nemmeno per l’intimo, costringendo i due a gestire il “dress code” in funzione del movimento e della temperatura. Nelle condizioni polari, infatti, va assolutamente evitato il sudore che, non appena ci si ferma, rischia di congelarsi immediatamente sulla pelle e portare all’ipotermia. Restando sempre nel campo dell’igiene personale, complessa è risultata anche la gestione degli escrementi naturali, che nel caso di quelli solidi hanno dovuto essere sepolti con uno strato di almeno 15 centimetri di neve.

Anche il cibo non ha potuto dare particolare conforto ai solitari escursionisti: tra necessità legate a peso, dimensioni, conservazione e impatto calorico, Rudd e O’Brady hanno dovuto ottimizzare le proprie scelte, mangiando come spuntini nel corso della giornata salame, formaggio e barrette energetiche a base di olio di cocco, noci e semi. L’inglese, a dire il vero, si è concesso anche qualche pezzo di cioccolato per combinare le esigenze nutritive con le richieste del palato. I pasti, invece, si sono basati su preparati liofilizzati ad alto contenuto calorico, comunque non sufficiente a compensare il 100% delle energie spese per percorrere ogni giorno circa 19 chilometri sugli sci spostando una slitta carica di provviste e attrezzature.

L’impresa di O’Brady e Rudd, i primi due uomini ad attraversare l’Antartide da costa a costa in solitaria e senza alcun aiuto o supporto, è stata documentata anche tramite i social che, oltre al telefono satellitare col quale potevano contattare le rispettive strutture organizzative, hanno consentito loro un contatto col resto del mondo.
Cosa ha spinto O’Brady e Rudd a mettere così pesantemente in gioco se stessi, il loro fisico e la loro volontà? Non è facile passare quasi due mesi in condizioni estreme, terribilmente lontane dalle abitudini di vita che entrambi sperimentano nella loro quotidianità. Davanti a imprese così, le motivazioni contano anche più della preparazione fisica: ambizione e voglia di superare i propri limiti e quelli imposti dalla natura. Ma anche il desiderio di entrare in contatto con la propria parte più interiore, nascosta sotto la crosta della routine giornaliera, delle incombenze meccaniche che imprigionano sensibilità ed emozioni. La composizione di questi fattori ha spinto O’Brady e Rudd a sottoporsi a sforzi non indifferenti per raggiungere l’obiettivo.

Impossible is nothing verrebbe da dire parafrasando il payoff di una notissima marca di abbigliamento sportivo, che il super atleta americano ha riformulato sul suo sito con un ancor più suggestivo “The Impossible First”, per circostanziare con le parole un concetto rimarcato anche sul suo profilo Instagram non appena compiuta l’impresa: che l’impossibile è tale finchè non l’hai realizzato. “Abbiamo dei limiti solo nei nostri pensieri. Spesso i momenti più bui della nostra vita arrivano poco prima dei nostri più grandi trionfi. Continuate a spingere finchè non trovate la luce”.

Un messaggio che dallo sport può scivolare nella vita di tutti i giorni se l’impossibile è un obiettivo elevato che, con fiducia e dedizione, ci si impegna a raggiungere.    

 

Giornalista e scrittore, coltiva da sempre due grandi passioni: la letteratura e lo sport, che pratica a livello amatoriale applicandosi a diverse discipline. Collabora con case editrici e redazioni giornalistiche ed è opinionista sportivo nell’ambito dell’emittenza televisiva romana.
Nel 2018 ha pubblicato il romanzo "Ci vorrebbe un mondiale" – Ultra edizioni. Nel 2021, sempre con Ultra, ha pubblicato "Da Parigi a Londra. Storia e storie degli Europei di calcio".

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