Lo abbiamo visto tutti, uscire a fatica dall’abitacolo della Mercedes W13 con le movenze di un anziano alle prese con il nervo sciatico infiammato. Lo stavamo guardando mentre in sottofondo ascoltavamo la comunicazione radio di Toto Wolff che gli chiedeva scusa per avergli messo sotto le natiche una…shit box, se doveste aver voglia di tradurre.
Lewis Hamilton ha duellato innanzitutto con se stesso, oltre a superare Gasly nel finale per arrivare finalmente a guardare gli scarichi dei primi da vicino. La definizione di campione, indiscutibile per tutto ciò che ha fatto e vinto fino a oggi, dopo quei fotogrammi al termine del Gran Premio di Baku, ha acquisito domenica scorsa una sfumatura in più, si è dunque arricchita di significato: l’uomo dolorante e addirittura sofferente per le sollecitazioni del “porpoising”, ossia i continui saltelli della monoposto, soprattutto sui rettilinei.
Per come ha potuto e al limite di ciò che poteva fare, forse persino un poco oltre, il campione ha permesso che l’uomo in difficoltà non si arrendesse. Un quarto posto non è certo un risultato memorabile per un pilota che ha dominato la sua epoca inanellando sette titoli mondiali; però è e sarà da ricordare il modo nel quale ha portato a termine la gara di Baku: il male alla schiena, la difficoltà di pilotare una macchina che è quasi una provocazione dal punto di vista aerodinamico; il confronto divenuto problematico con un compagno di squadra giovane, talentuoso e arrembante come Russell, che ha iniziato il Mondiale mostrando molto più feeling con la macchina.
È uno snodo importante della sua parabola sportiva; qualcuno ci vede segnali inequivocabili di declino: anche se fosse, il modo di aggrapparsi alla macchina per ottenere il risultato più decoroso possibile rende speciale il risultato e meritevole l’uomo, del quale il campione è una conseguenza, anche nell’anno in cui probabilmente non porterà a casa nemmeno una gara.