Gli Dei di Olimpia: intervista a Valerio Iafrate
– Io ha sempre utilizzato Olimpiadi e Mondiali di calcio (ma pure Europei di calcio e Mondiali di atletica e nuoto…) per separare meglio i ricordi: mia moglie non ha mai smesso, da 23 anni, di prendermi in giro per questo… –
Comincia così la chiacchierata con Valerio Iafrate (Sky, Gazzetta.it, Raisport) a proposito del suo ultimo libro: “Gli dei di Olimpia”.
Il mondo dello sport è rimasto dunque l’unico a poter essere abitato dagli “dei” di cui racconti nel libro?
Non so se sia l’unico, perché penso, per esempio, agli eroi di ogni giorno, i medici, gli infermieri, i volontari, i rappresentati delle forze dell’ordine, le cassiere e gli impiegati dei supermercati, tutti coloro che, specialmente in quest’ultimo anno e mezzo hanno davvero rappresentato la parte migliore di questo nostro incredibile paese, straordinario soprattutto nelle emergenze, però, indubbiamente, il mondo dello sport, per sua natura, si nutre più di ogni altra realtà di grandi imprese, e, quindi, è abitato da quegli “dei” dei quali ho cercato di ripercorrere le gesta.
I Giochi olimpici, come e più della Coppa del mondo di calcio, scandiscono anche le tappe della nostra esistenza?
Assolutamente. Chi non si ricorda, per esempio, dov’era il giorno di Italia-Francia del 2006 o l’11 luglio del 1982? O, magari, quando vide per la prima volta correre Edwin Moses?
C’è un’Olimpiade che ricordi con maggiore trasporto, in relazione alle tue vicende biografiche?
Ce ne sono diverse, in realtà, ma se proprio sono costretto a scegliere allora dico Atene 2004 e Londra 2012, la prima per ragioni professionali, la seconda per un motivo personale. Nel 2004 lavoravo a Skysport, che non aveva i primi diritti dei Giochi, quindi bisognava cercare strade alternative al racconto: prima delle Olimpiadi, perciò, passai una settimana ad Ifrane, in Marocco, dove Hicham El Guerrouji stava preparando le sue gare. Hicham, uno dei più grandi atleti mai visti – e persona eccezionale, dallo spessore umano straordinario – non era ancora riuscito a conquistare un oro olimpico. Perciò, la sua doppietta 1500-5000 ad Atene, oltre che riportare alla memoria le gesta di Paavo Nurmi, mi commosse, come l’oro di Stefano Baldini nella maratona, la gara simbolo dei Giochi Olimpici. Il ricordo personale, più intimo, invece, è del 2012, Giochi di Londra: un’ora prima della palla a due di USA-Australia, semifinale del torneo di basket femminile (ero il telecronista Rai), ebbi la fortuna, grazie all’intercessione di Geno Auriemma, il coach degli Usa che conosco da una ventina d’anni, di stringere la mano all’allora First Lady, Michelle Obama, che era al Palazzo dello Sport a tifare per le ragazze: fu una emozione davvero intensa.
Tante storie, nel tuo libro; tanti campioni. Quali vicende ti hanno appassionato di più? Ce n’è qualcuna nella quale ti sei immedesimato in modo particolare?
Anche questa è una domanda alla quale è difficilissimo rispondere, perché sono tante le vicende che, nel corso della scrittura, mi sono tornate in mente, oppure ho scoperto proprio scrivendo, da quelle più conosciute, come la sfida tra Owens e Luz Long nella finale del salto in lungo a Berlino 1936 alla nascita del “Settebello” a Londra 1948, con Cesare Rubini, eccezionale atleta, in grado di primeggiare in due sport tanto diversi come il “terrestre” basket e l’”acquatica” pallanuoto, fino alle storie piene di umanità di Nawal El Moutawakel, prima donna marocchina a conquistare un oro olimpico – Los Angeles 1984 – e dell’algerina Hassiba Boulmerka, a Barcellona ‘92 (entrambe accomunate dalla loro condizione di donne costrette ad emigrare o a nascondersi per praticare sport), di Haile Gebreselassie e dei fratelli D’Inzeo, miti assoluti dell’equitazione, fino al canottaggio, sport che regala sempre emozioni nel segno di uomini eccezionali, come gli Abbagnale o Sir Steve Redgrave. E poi c’è Derek Redmond, il più sfortunato quattrocentista della storia olimpica, talento cristallino e sfortuna omerica. Sempre favorito per l’oro, mai nemmeno in finale: a Seul si ruppe il tendine d’Achille dieci minuti prima della semifinale, a Barcellona, quattro anni, si squarciò il quadricipite a 150 metri dall’arrivo, crollò a terra, si rialzò con l’aiuto del papà e saltellò fino all’arrivo, su una gamba sola, mentre la gente sugli spalti applaudiva e piangeva. Ecco, a un quattrocentista modesto – in gioventù- come me vengono ancora i brividi a ripensarci.
Hai raccontato anche vicende dei cosiddetti “re senza corona”, di quei campioni che avrebbero meritato l’alloro che per questo o quel motivo non sono riusciti a cogliere?
Sì, a partire dal più famoso di tutti, Dorando Pietri, l’uomo che, come dicono gli inglesi “ha vinto e ha perso la vittoria”. E poi i campioni fragili, come Vera Caslavska, derubata di un oro nella ginnastica a corpo libero, a Messico ’68, che al momento della premiazione, lei cecoslovacca, oppositrice del regime e firmataria del “Manifesto delle Duemila Parole” di Alexander Dubcek, sdegna la bandiera sovietica della Larik – oro ex-aequo con lei dopo una decisione incredibile della giuria – piegando la testa dall’altro lato, o come Greg Norman, il terzo uomo sul podio dei 200 di Smith e Carlos, dimenticato da tutti e ostracizzato da una nazionale, l’Australia, che vanta invece, una solida cultura sportiva, fino al mito giapponese del tiro con l’arco, Hiroshi Yamamoto, che a 41 anni fallì l’ennesima rincorsa all’oro olimpico, ad Atene 2004, per mano del nostro Marco Galiazzo, gettando nella disperazione una nazione intera.
La domanda impossibile: qual è stato l’atleta più grande di tutti, nel ventesimo secolo?
Se devo dirne uno solo (ma sarebbero almeno dieci…) dico Michael Phelps: per dominare così a lungo, in una specialità così massacrante come il luogo, e in tanti stili diversi, devi essere speciale. Per forza.
Fingendo di non esserne l’autore, tre motivi per consigliere il libro ai nostri lettori.
1) Non è una storia dei Giochi Olimpici, ma è una raccolta di storie olimpiche, di donne e uomini prima ancora che atleti;
2) La prefazione di Federica Pellegrini vale (quasi) il resto del libro.
3) Concedimi un piccolo peccato di vanità 🙂 : è scritto bene…