Giorgio Porrà e l’arte di raccontare diversamente lo sport

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Nella fitta palude del giornalismo sportivo, dove becero chiacchiericcio, pettegolezzi social, faziosità varie e altre immonde bestialità si intrecciano quotidianamente contribuendo a inquinare il fascino autentico del calcio, c’è anche chi, il calcio, adora raccontarlo scavando nella sua essenza, appoggiando l’orecchio al suo cuore per ascoltarne i battiti. Ed emozionarsi. Un’oasi a cui pochi desiderano ancora abbeverarsi, continuando a macinare chilometri nell’infinito deserto del mainstream. Pochi, nobili cavalieri senza macchia che sventolano ancora fieri il vessillo del football come meravigliosa espressione e metafora della vita.

Un posto d’onore in questa piccola tavola rotonda, spetta sicuramente a Giorgio Porrà, storico giornalista e volto noto di Sky Sport da sempre affascinato dall’idea di uscire dagli schemi, di muoversi liberamente dall’angusto e ristretto recinto del giornalismo televisivo per avventurarsi in territori inesplorati con destrezza e coraggio, nonché con grandi capacità professionali riconosciute in maniera trasversale.

Osando, rischiando, sperimentando, senza mai assoggettarsi alla linea comune, al pensiero unico, alla faciloneria dei salotti tv che sfocia costantemente nel bar sport.

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Coriaceo, come un vero sardo, Porrà è altresì uomo di innato garbo, facilmente riconoscibile dal linguaggio alto ma quasi sussurrato che da sempre lo contraddistingue e che sin dagli inizi della sua carriera lo ha connotato come un uomo di cultura con la passione per il calcio. Da sempre Porrà si è tenuto a distanza di sicurezza dal calcio urlato. La boutade, il chiasso dei dibattiti e l’eco delle polemiche non lo hanno mai attratto, e questo, inevitabilmente, ha contribuito ad alimentare nei suoi confronti la critica di essere freddo e distaccato. Cose che succedono a chi si rifiuta di salire a bordo di certi carrozzoni, ma l’orgoglio di restarne giù semplifica la digestione di certe immancabili e sterili rimostranze.

Critiche, quelle sulla sua presunta aridità, che sono nulla in confronto al vilipendio di cui è stato vittima nei momenti duri che hanno segnato i suoi ultimi anni, da quando un sarcoma al femore l’ha costretto a combattere con la vita e con l’immagine pubblica, quando il suo aspetto è inevitabilmente cambiato e una certa cloaca umana non ha perso occasione per riservargli i più ignobili insulti ai quali Porrà, com’è nel suo stile, ha risposto con la forza nobile del silenzio e con la dignitosa volontà di andare ugualmente in onda e fornire il suo prezioso contributo alla rete.

Ma oltre al rispetto che si deve a chi affronta tacitamente battaglie private che poi diventano pubbliche senza mai far trasparire un briciolo di autocommiserazione, a Porrà bisogna riconoscere un enorme merito. Perché Giorgio Porrà, l’asciutto e apparentemente impenetrabile Giorgio Porrà, con i suoi programmi è stato pioniere di quello che è ormai diventato paradigma comunicazionale e che da qualche tempo a questa parte ha abbracciato anche lo sport: lo storytelling. Già, perché tra i primi a sperimentare in tv la narrazione sportiva, quella che fonde epica, lirismo e racconto, e da cui oggi siamo circondati per l’esigenza di dare una lettura più profonda alla semplice breaking news, ci fu proprio Porrà con il suo Lo Sciagurato Egidio –  termine di breriana memoria – in tempi del tutto non sospetti. Un format rivoluzionario che scardinò il sistema della tv sportiva attraverso una spettacolare contaminazione di generi, in cui il calcio conviveva in maniera naturale con musica e letteratura grazie ad un pregevole lavoro autorale e a cui hanno fatto seguito Profili e Italia Germania 4 a 3, altri programmi in cui la componente culturale e di costume si univa al racconto sportivo.

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Decido di incontrarlo per parlare dello storytelling declinato al calcio, di cui lui stesso è stato precursore senza le stesse fortune e riconoscimenti di Buffa e Condò, oggi idolatrati – soprattutto il primo – per le loro narrazioni. E quando, appartati nell’angolo di un bar vicino al centro di Milano, gli faccio presente di come sia impossibile non riconoscergli la paternità di quella rivoluzione, il suo sguardo si fa più nostalgico, ma senza una goccia di rancore: “È vero, con lo Sciagurato abbiamo aperto un fronte, interpretando in maniera del tutto nuova l’evento sportivo. Dovevamo essere liberi di sperimentare, ma forse eravamo troppo proiettati in avanti per quell’epoca e ci scontrammo inevitabilmente con le esigenze della rete. Volevamo formare una nuova generazione di ragazzi attraverso una nuova forma di giornalismo. Sono convinto che la contaminazione di generi sia il miglior modo di raccontare lo sport e, nonostante le tendenze, vivo e mi nutro dell’idea che la televisione debba essere un veicolo di cultura”.

Tutto chiaro: arrivare troppo in anticipo, talvolta, è come arrivare in ritardo, si rischia la bassa considerazione. Non che i suoi format non siano stati apprezzati, al contrario hanno formato una generazione (“da anni, un sacco di gente che incontro mi chiede se tornerò a fare Lo Sciagurato”), ma è evidente che non abbiano avuto la stessa risonanza di quei programmi che oggi ne sono la copia più moderna e patinata, maggiormente teatralizzata, e riscuotono enorme apprezzamento di pubblico e critiche. Ma perché oggi lo storytelling è diventato un termine così di tendenza? Perché tutti avvertono la necessità di manifestare le proprie abilità oratorie e vestire i panni di cantastorie? Giorgio fa un sorso di spritz, si lascia andare in un sorrisetto amaro tipico di chi aveva previsto tutto ma non è stato ascoltato e poi risponde: “c’è un rinnovato appeal per la narrazione orale, che per certi versi può essere più interessante del calcio giocato. Alla gente piace sentire raccontare storie, si sente coinvolta, instaura con il narratore un rapporto profondo, più intimo, e amplifica il valore del romanzo. Oggi lo storytelling è diventato quasi una disciplina scientifica, indispensabile per chiunque voglia comunicare a un pubblico. Obama, e sulle sue orme Renzi, ne hanno fatto il cavallo di battaglia dei loro mandati. Nello sport significa soprattutto generare un’emozione in chi ascolta attraverso la mescolanza di codici e stili profondamente diversi e miscelati con il giusto ritmo, trasmettendo autenticità e trasferendo conoscenza. Ognuno con la sua personale cifra. La mia, per esempio, è molto diversa da quella di Federico (Buffa), che ormai è una vera e propria rockstar”.

La tendenza, anche ai giorni nostri, resta quella di prediligere i racconti che hanno come protagonisti sportivi del passato, portatori di una carica emotiva più forte di quella che contraddistingue l’epica attuale. Contesto storico e sentimento nostalgico sono fattori non di poco conto, come la completezza delle parabole di qualcuno che è già vissuto rispetto a chi è contemporaneo, ma la natura, il fascino umano di campioni come Socrates, Cruijff e Maradona non sono lontanamente paragonabili a quelli dei protagonisti di questi tempi come Messi, Ronaldo o Neymar. Prima i divi erano anche rivoluzionari, anarchici, visionari, portabandiera di valori e ideali. Oggi la loro epica è l’immagine, lo sponsor, l’eccessivo sfarzo. Un cambiamento radicale che forse altro non è che lo specchio della società consumistica in cui viviamo. Ma questi idoli sono mitizzati più ora, con le scarpe ultrapersonalizzate e i contratti roboanti, o prima, quando ammirare un fuoriclasse significava anche lasciarsi sedurre dal bagaglio etico e morale che portava con sé? “L’ex campione è un patrimonio di aneddotica. Purtroppo calciatori come Socrates, che trasformò il Corinthians, la squadra del popolo, in un modello democratico esportato a livello sociale e in grado di cambiare un paese, o come Pelè, che nell’Africa degli anni ’70 fu capace di fermare una guerra solo con la sua presenza in un’amichevole, antropologicamente non rinasceranno più. Ed è inevitabile che il loro enorme serbatoio umano fornisca più spunti narrativi e generi una carica seduttiva verso certe storie maggiore di quella che caratterizza i campioni moderni. Bisognerebbe tornare a quel mondo, e invece i calciatori di oggi – non tutti, è chiaro – sembrano tamagotchi, cyborg che non vanno al di là di una risposta precotta, burattini nelle mani di società e sponsor. Prima erano calciatori-pensatori, oggi sono calciatori-lobby.

Quindi il calcio non è più una “rappresentazione sacra” come sosteneva Pasolini, verso cui tu nutri una certa deviazione. “No – continua Porrà -, non lo è più. Di sacra è rimasta la passione di un certo tipo di pubblico. Il calcio si è sporcato anche per colpa di una precisa comunicazione: perché prima di tutto il calcio è una forma artistica e per questo bisogna sempre valorizzare la sua bellezza mettendo in primo piano il gesto tecnico, invece di rincorrere l’ossessivo moviolismo”.

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Passa il tempo, consumiamo chiacchiere, confronti e patatine, e la sua collocazione nel panorama giornalistico si delinea in maniera sempre più chiara: un passo indietro o uno avanti, a debita distanza dal calderone in cui sguazza buona parte della comunicazione sportiva. Sembra defilarsi, costantemente. Uno smarcamento che rivendica a modo suo, senza cadere neanche per un attimo nella boria di sentirsi “diverso”, ma semplicemente esaltando una visione dello sport alternativa che vive e arde dentro di lui. Ma ci sono anche colleghi che segue e legge con piacere, in particolare quelli di Repubblica: “Fabrizio Bocca, Maurizio Crosetti, Emanuela Audisio e, soprattutto, Gianni Mura. Ho cominciato leggendo lui. Poi, ovviamente, c’era Brera, che era una cosa a parte, un letterato votato allo sport che ha creato, purtroppo, tanti emuli.

Si fa tardi, ci salutiamo. Lo rivedrò presto, in tv. Dove Porrà è impegnato con L’uomo della Domenica, spazio di approfondimento, manco a dirlo, ricco di spunti letterari e cinematografici. Non è di certo pubblicizzato come Buffa Racconta, ma resta fedele a quel linguaggio, quello della narrazione sportiva, di cui lui stesso, è d’obbligo ricordare ancora, fu eccelso esploratore.

 

 

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