Gilles Villeneuve, l’eterno poeta innamorato del limite
/E volta nostra poppa nel mattino,/
Dei remi facemmo ali al folle volo/
Sempre acquistando dal lato mancino./
Dante, Inferno, Canto XXVI
Un poeta è un poeta; tanto più autentico quanto meno sa di essere tale. Quale che sia il suo modo di comunicare al mondo la sua essenza. Lui scelse la velocità, da perseguire in quanto tale: spesso più come un fine, che come mezzo per ottenere i risultati che avrebbe meritato.
Del poeta aveva il viso, delicato come il sussurro d’una pronuncia francese, che veniva più naturale immaginarselo davanti a un leggìo, sotto un fascio di luce discreta, che dentro quell’abitacolo in cui sembrava quasi sparire, minuto come un ragazzino, di cui gli restavano gli occhi, scoperti ed entusiasti, dentro la maschera bianca, un attimo prima che la visiera scendesse come una carezza, sugli occhi di un volto timido.
Alle sue spalle, il frastuono dei pistoni che sembravano soffiarlo via come un vento improvviso, per poi scoprire alla prima controsterzata che si trattava di un’orchestra, con un direttore piccolo e sottile, leggero come una piuma, a incidere note gommate sul nastro d’asfalto che impazziva, come le immagini delle comiche quando le scene cominciano a scorrere veloci.
Dal nulla immenso delle nevi canadesi, il fragore di una motoslitta rompeva la linea dell’orizzonte: si chiamava Gilles Villeneuve, avrebbe guidato qualsiasi cosa a modo suo, questo lo avevano già capito i suoi genitori quando aveva iniziato ad andare in bicicletta senza aver bisogno delle rotelle per imparare.
Ci vuole sempre un poeta, del resto, per riconoscerne un altro: quando James Hunt si ritrovò a gareggiare in America contro di lui, in quella che era la Formula Atlantic, lui che nell’altro emisfero automobilistico stava per cogliere l’alloro più grande, poté solo guardargli gli scarichi, il cui fumo gli anneriva ancora di più il casco scuro. Il già celeberrimo inglese, il Dorian Gray della Formula Uno, convinse la sua scuderia, la McLaren di Teddy Mayer, a dare una chance allo sconosciuto venuto dal Québec, con la faccia da bambino.
Era destino che tutto accadesse di corsa, non c’erano altre possibilità.
Quella faccia da bambino, dopo una telefonata dallo strano accento, si specchiò negli occhiali scuri di un vecchio. Solo “il” Vecchio, poteva avere la forza di regalarsi una scommessa come quella, forse dimostrare al mondo che la Ferrari, se vuole, il pilota se lo cresce in casa: il modo che Enzo Ferrari scelse per calmare i propri nervi, dopo uno scambio di “vaffanculo” con Niki Lauda.
“Lasciate che provi” rispondeva secco al coro di chi faceva di tutto per sconsigliarlo, quando da una torretta di Fiorano seguiva con il binocolo le traiettorie nervose del ragazzo che si era ritrovato tra le mani il volante del grande austriaco, con un sedile adattato e una monoposto, appena laureatasi campionessa mondiale, che Lauda aveva posseduto e coccolato come un marito e che ora Gilles Villeneuve – Chi? – da Berthierville strapazzava come un amante, inesperto ma passionale come nessun altro. Sorgeva l’alba di una nuova era; profumava di frizione bruciata, aveva occhi di rimmel scuro, per ogni staccata al limite dopo la frenata energica all’ultimo istante utile.
Ha vinto soltanto sei gran premi, Gilles Villeneuve, tanti di più ne ha sacrificati sull’altare della ricerca di un limite la cui soglia lui spostava per sé ogni volta un poco più in là: controsterzando in faccia ai calcoli e alle tattiche, macinando semiassi e disperdendo punteggi, chiedendo alla macchina esausta di dargli retta ancora una volta, ogni volta.
Insegnò al motore turbo a trattenere il respiro tra gli spigoli di Montecarlo; riuscì a vedere sorpassi laddove altri vedevano solamente traiettorie obbligate; chiese scusa alla macchina per ogni alettone amputato, per ogni volta che le aveva capovolto l’orizzonte: per averla fatta zoppicare senza farla cadere, una ruota in meno e un altro passo verso la leggenda. E quel pomeriggio di luglio a Digione lui e René Arnoux si strapparono i millesimi a vicenda, con gli pneumatici che si sfioravano come le dita di due innamorati, disposti a morire per il bacio di un secondo posto, a cui Villeneuve si aggrappò in una persistenza di accelerazione.
Tutto quello che avrebbe meritato, lo barattò con le sue imprese. Sbiadiscono le date sugli albi d’oro, prima o poi; sempre più nitidi appaiono gli istanti che nacquero già immortali.
La sua ultima Ferrari sembrava concepita per portarlo al titolo: se lo sarebbe meritato per gratitudine e per un talento smisurato che cominciava a incontrare la perfezione della maturità. Quel giorno di maggio gli era rimasta solo la rabbia, come compagna; di quella soltanto ormai si fidava, per quell’ultimo giro utile: gomme già usurate e un ultimo giro disperato.
Rumore sordo e rottami a pioggia, carambola di un’inquadratura ancora parziale, in un sabato belga con il bosco in prossimità di un curvone veloce; un bosco come dovevano essercene tanti vicino casa sua, in Canada. Una macchina rossa che plana, alla fine, ormai accartocciata come una lattina vuota. La tuta bianca in volo orizzontale come un panno candido soffiato dal vento, in un fotogramma percepito a stento, dopo la decelerazione innaturale che aveva già fermato un cuore intento a inseguire se stesso.
Avrà per sempre trentadue anni, Gilles Villeneuve, che pensava di essere arrivato troppo tardi in Formula Uno e che per questo si abbassò l’età di un paio di anni, per sembrare più giovane.
Nel frattempo, siamo cresciuti e cominciamo a invecchiare noi, che non sapremo mai dove vanno a dormire gli eroi.
Titolo: Villeneuve. Il cuore e l’asfalto
Autore: Paolo Marcacci
Editore: Kenness Publishing
Acquistalo su Amazon QUI
[themoneytizer id=”27127-28″]