Giacinto Facchetti: Tre, come Treviglio
Tra i tanti primati del calcio italiano, ce n’è uno, sempre passibile di aggiornamenti, incrociando le dita, che gli almanacchi raccontano solamente in maniera implicita; in fondo anche a noi è venuto in mente quasi per caso: nella storia della maglia azzurra sono molti di più i giocatori che hanno vinto la Coppa del mondo rispetto a quelli che hanno alzato la Coppa Europa.
Importante perché fino a pochi giorni fa era la sola in bacheca, storica perché destinata comunque a rimanere la prima, ma indimenticabile per un motivo in più: l’ha presa per i manici Giacinto Facchetti, specchiando nella lucentezza del trofeo il volto di un uomo e di un’idea di paese di cui andare fieri, ossia quella secondo la quale nel momento dell’arrivo si riconosce ancora di più ciò che si era alla partenza. Senza mai diventare altro da ciò che si è sempre stati. Con la gloria conquistata che non è mai un tappeto prezioso da adagiare sopra un terreno che era stato povero, ma un fiore da ammirare tanto per i suoi petali quanto per le radici che da quello stesso terreno si sono nutrite.
Giacinto, del resto, è un nome che sa di eleganza e semplicità, di estetica e natura. È anche un fiore di quelli perenni, che non accusano il trascorrere delle stagioni. Chiedi a un bambino dell’Inter se, per caso, sappia chi è stato Giacinto Facchetti e ti risponderà facendo il segno del “tre” con le dita. Come fosse il dieci degli altri fuoriclasse.
Fuoriclasse Facchetti lo era diventato naturalmente, perché era un fuoriserie per le doti fisiche, che senza soluzione di continuità diventarono atletiche. Così come non si capì mai il tratto di fascia dove finisse di essere terzino e dove cominciasse a fare l’ala, e viceversa: spingeva e riconquistava la posizione con la medesima naturalezza, sempre con l’eleganza naturale che avrebbe esibito anche se avesse spinto un aratro in campagna, o con indosso la divisa da ferroviere che avrebbe potuto ereditare da suo padre. Le sue lunghe leve non si limitavano a percorrerlo, il campo: davano la sensazione di accorciarlo.
Tre, come Treviglio: nelle iniziali di un piccolo comune che se chiami Bergamo qualcuno ti risponde già, il destino di una maglia. Sul treno dovette comunque salirci presto, ma con l’abito buono, non più né meno elegante di come sarebbe sempre apparso: destinazione Milano, per firmare con l’Inter. Quasi non ci credeva, come tutti i predestinati che la propria grandezza debbono ascoltarla, all’inizio, dalle parole degli altri; come tutti gli uomini semplici, destinati a rimanere tali, che anche quando una cosa l’hanno meritata esibiscono sempre il sorriso timido di chi si sente in imbarazzo di fronte a una soddisfazione.
Perché ancora ci si ricorda di un certo Čislenko, nazionale sovietico? Perché fu uno dei pochi a metterlo davvero in difficoltà, in un mondiale nato male e finito peggio per l’Italia, nel 1966. E ora che ci riflettiamo, Facchetti ha vissuto l’onta della Corea del Nord e la leggenda dell’Azteca contro i tedeschi occidentali; ha scelto il lato giusto della monetina nel sorteggio della semifinale contro l’URSS in quell’Europeo per ora figlio unico. Anche con l’azzurro senza il nero indosso, ha fatto solo cose grandiose, compresa quella volta in cui la maglia ha deciso di sfilarsela: Bearzot lo avrebbe portato in Argentina nel 1978, quando ormai Facchetti operava da difensore centrale di classe ed esperienza; fu lui a sconsigliarlo, visto che era reduce da un infortunio che ne aveva pregiudicato lo stato di forma. Basta mezza mano per contare tutti gli altri che al posto suo avrebbero preso una simile decisione.
Tutto quello che ha vinto con l’Inter, sopra e sotto l’equatore, ci piace definirlo come la punteggiatura che il calciatore ha messo sul discorso dell’uomo che era. Che sarebbe stato anche senza la casacca nerazzurra numero tre sulle spalle, anche se dopo l’oratorio e la Trevigliese fosse entrato nelle ferrovie. Con e senza Coppe dei Campioni, anche se al posto delle trasferte intercontinentali che erano mattanze avesse vissuto una sequela di stazioncine ammantate di foschia. Gli toccarono invece i riflettori di San Siro, gli stessi della canzone di Vecchioni, perché Helenio Herrera nel presente di un ragazzino intravide difensore, definizione restrittiva, futuribile, uno che avrebbe cambiato il ruolo di terzino. Ci sono un prima e un dopo Facchetti, se si parla del modo di coprire la fascia.
Una volta ebbe a dire che, tra tanti nostri difetti, il calcio è una di quelle cose che aiuta a far parlare bene di noi italiani. Non è vero in assoluto, non lo era nemmeno all’epoca. È stato vero quando se ne parlava citando uomini come Giacinto Facchetti.