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Germania-Francia: Quando i fantasmi parlano tedesco

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Se nei quarti temeva l’Italia perché non era mai riuscita a batterla nelle competizioni ufficiali, ora in semifinale la chimera sarà la Germania.

Contro di lei, infatti, la Francia non ha (quasi) mai vinto.

 Da avere gli incubi a essere un incubo. La qualificazione alle semifinali dell’Europeo ai danni dell’Italia, oltre ad aver interrotto un’atavica quanto all’apparenza interminabile maledizione sportiva, per la Germania equivale anche a un rovesciamento del suo ruolo nel momento in cui si legge il calcio sotto l’ottica della superstizione e della fenomenologia magica. E così ecco che se la Mannschaft vedeva nell’azzurro un tabù, ora tocca a lei essere una chimera agli occhi del suo prossimo avversario: la Francia. Finora, quattro precedenti fra le due nazionali e tre vittorie tedesche. E non al torneo dei bagni di Alassio, ma in tre campionati del mondo: Spagna ‘82, Messico ‘86 e Brasile ‘14. L’unica consolazione transalpina la finalina per il terzo posto vinta ai Mondiali del 1958 in Svezia.

Tutto cominciò trentaquattro anni fa, in un’umida sera andalusa che, per i transalpini, a lungo sembrò volgere più in un sogno di una notte piena estate (sì, lo sappiamo: quella di Shakespeare era “mezza”, ma qui si giocò l’8 luglio e a Siviglia, dove in inverno la temperatura più bassa è di 20°) che tramutarsi nel primo atto di un incubo ancora attuale.

Sull’erba del “José Sanchez Pizjuan” – ignaro che avrebbe ospitato una delle più belle partite di sempre (seconda solo a Italia-Germania di Messico ‘70) e passata alla storia del calcio come la “Notte di Siviglia” – al rampantismo francese del quadrato magico di centrocampo – Tigana, Giresse, Genghini e Platini – si oppose la fisica tenacia teutonica, ben espressa dal ruvido Kaltz, dal marmoreo Briegel e dall’anticonformista Breitner. In attacco, lo svolazzante Littbarski che, oltre a una traversa, colpì con l’1-0 pareggiato su rigore da Platini a metà frazione.

Nella ripresa, per dieci minuti, spazio al dramma. Harald Schumacher, numero uno tedesco quella sera oltremodo nervoso, travolse Battiston fuori area con un colpo d’anca in pieno volto, costringendolo al ricovero in ospedale con due vertebre incrinate e la perdita di tre denti. Deprecabile, nella circostanza, l’arbitro olandese Courbel, che assegnò la rimessa dal fondo senza espellere il portiere. All’88’, Amoros ebbe il pallone del sogno: traversa. E tutti ai supplementari, montagne russe di emotività. Antenato di Thuram per le comuni origini caraibiche e la comunanza tattica (difensore), Trésor segnò il 2-1 in acrobazia dentro l’area di rigore al 3’ del primo extra-time. Jupp Derwall, bundestrainer di provata esperienza, non fece in tempo a inserire Rummenigge che Giresse, con un bel destro in corsa, prenotò il biglietto per Madrid. Sugli spalti, la Marsigliese riecheggiava impetuosa.

Ma, da sempre, i tedeschi sono come i gatti: hanno sette vite. E seppur malconcio a una caviglia, al 102’ Rummenigge accorciò le distanze.

“Mai sanguinare davanti gli squali” avrebbe sentenziato qualche anno dopo Dan Peterson. Specialmente se dotati di un sesto senso fuori dal comune quando c’è da approfittare delle difficoltà altrui. Detto, fatto. Temendo la beffa, a inizio secondo tempo supplementare (108’) la Francia fu davvero beffata: da Fisher, in rovesciata, su sponda dell’erculeo e impronunciabile Hrubesch.

E i fantasmi cominciarono a prendere inesorabile possesso delle menti dei bleu, illusi in un primo momento ai calci di rigore da Stielike salvo essere nuovamente preda delle loro angosce perché Six si fece respingere il tiro da Schumacher. Proprio l’estremo difensore del Colonia, profilo da “cattivo” di un film di Sergio Leone, nella prima serie a oltranza, insieme alla trasformazione di Hrubesch, fece sgorgare fiumi di birra parando la conclusione di Bossis. Sarebbe toccato alla Germania contendere la coppa all’Italia.

A proposito di Bossis. Classe ’55, difensore centrale che non disdegnava le incursioni aeree, quattro anni più tardi quella sera andalusa, nel catino di Guadalajara, ebbe l’occasione per la rivincita. Personale e collettiva. Forte del titolo europeo del 1984 e trascinata da un Platini al top della carriera, la Francia era in semifinale dopo un Mondiale arrembante, dove aveva eliminato l’Italia negli ottavi e il Brasile nei quarti. Ad aspettarla, prima dell’ultimo atto, ancora la Germania. Si giocò alle 12 del 25 giugno e, complice l’altura (1560 metri sul livello del mare), in campo poco spettacolo.

I fantasmi, però, non risentono mai del clima e impiegarono appena nove minuti per infestare la mente del portiere Bats, che non trattenne la punizione dell’1-0 di Brehme. Da un paio d’anni, sul grande schermo era uscito Ghostbusters e proprio Bossis sarebbe stato un degno emulo del dottor Stanz quando alcuni minuti dopo si trovò sui piedi, non trattenuto da Schumacher, un pallone calciato da Platini. La porta era spalancata e lui, bandiera del Nantes, era dentro l’area piccola. Ma con il corpo troppo all’indietro. Alto. In quell’attimo mancarono soltanto le note del Carmina Burana, che il 2-0 in pallonetto di Völler a un soffio dal novantesimo avrebbe tramutato in un Requiem. Per quella nazionale e per un sogno iridato che si sarebbe realizzato soltanto dodici anni più tardi.

Ne sono trascorsi invece ben ventotto prima che la Francia ritrovasse la Germania. Non più Ovest, ma solo “Germania” perché nel frattempo è caduto il Muro di Berlino. Squadra più giovane e più tecnica rispetto agli anni Ottanta, ma immutata nel dna pugnace. La conferma? Il 4 luglio, al “Maracanà” di Rio de Janeiro, quando Hummels insaccò di testa il gol di un successo sigillato dai guanti di Manuel Neuer. Cioè colui che, respingendo i rigori di Bonucci e Darmian, ha spinto i campioni del mondo alle semifinali di questo Europeo per una sfida dove la Storia dice “Germania”.

«Ma la Storia non conta, conta il presente» ha dichiarato Joachim Löw alla vigilia della partita contro l’Italia. Ragionamento ineccepibile, in campo vanno i valori e non gli almanacchi, e confermato dai fatti. Ora però dovrà tenerlo a mente anche giovedì 7 luglio, al Velodrome di Marsiglia, quando sarà al cospetto della Francia. Altrimenti per la Mannschaft ci sarà sì un’altra prima volta. Ma molto meno wunderbar (“meravigliosa”) rispetto a sabato scorso.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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