François Cevert: una folata di vento
Il 25 febbraio 1944 nasceva François Cevert, pilota francese che perse la vita tragicamente durante il Gran Premio degli Stati Uniti. Riviviamo la sua carriera e quella giornata tragica rimasta nella memoria di tutti gli appassionati.
– Alcune strade portano più ad un destino che a una destinazione. – Jules Verne
La verità è che bisognerebbe sempre dar retta a Jackie Stewart: ancora oggi, quando si calca in testa l’inseparabile coppola e sale su una fuoriserie da favola, dopo aver rifiutato una birra ghiacciata perché, come ricorda al cameriere in un saggio e riuscitissimo spot, lui guida ancora. Forse perché quelli come lui sono riusciti sempre a restare in equilibrio sull’orlo del precipizio; come se la mano invisibile del loro talento fosse stata capace di tattenerli nelle centinaia di migliaia di istanti decisivi. E perché uscire da una curva a bordo di una monoposto di Formula Uno dei primi anni settanta era molto peggio che sporgersi da una strapiombo.
Infatti non è di Jackie Stewart che vogliamo raccontarvi, o forse un poco anche di lui, che gli altri campioni non soltanto li batteva, ma sapeva anche riconoscerli prima che loro stessi si convincessero di essere tali.
Fu così che gli occhi di Jackie si posarono sulla scia di Francois Cevert; perché c’è stato un tempo in cui i più grandi correvano ancora per il piacere di correre e, dopo essersi guadagnati la massima formula, continuavano a infilarsi in ogni altro abitacolo, comprese le serie minori. Come nella prova speciale di Formula Due che si corre a Londra nel maggio del 1970, sul circuito di Crystal Palace, dove lo scozzese con le basette da rockstar riceve parecchio filo da torcere da un parigino ancora poco conosciuto, fatta eccezione per i talent – scout del circus, che guida come se non avesse mai fatto altro.
Sotto il suo casco c’è la faccia tipica di chi è così ricco di famiglia da potersi affrancare da ogni pericolo; a meno che non sia lui a sceglierselo. Ha un viso bello perlomeno quanto quello di Alain Delon, solo che i suoi occhi sono un po’ più azzurri, Francois Cevert.
La rarità di nascere benestanti nella Parigi ancora occupata dai nazisti, nel 1944; la sorte speciale di chiamarsi, di fronte al mondo, col cognome della propria madre: sarebbe dovuto essere Francois Goldenberg, non fosse che suo padre era un russo di religione ebraica, sfuggito ai pogrom e riparato nella capitale francese, dove aveva iniziato a esercitare con profitto, sotto un’identità fittizia, il mestiere di gioielliere.
Al mondo delle corse Francois Cevert nasce invece come motociclista, grazie a sua sorella e al fidanzato di lei, quasi campione nelle due ruote.
Suo padre pensa, perché tutti lo penserebbero, che sia solo lo sfizio temporaneo tipico di un figlio di papà, appunto e che prima o poi passerà a qualche altro costoso passatempo, visto che prima o poi subentra sempre la noia, quando si ha a che fare coi passatempi dei ricchi. In un certo senso ha ragione, perché Francois lascia presto le moto. Per le macchine.
A uno che è nato pilota le scuole di pilotaggio servono più che altro a confermare ciò che il talento gli ha già sussurrato all’orecchio; se poi è vero che il nastro della vita sembra scorrere velocemente più o meno per tutti noi, figurarsi per quelli che la vita scelgono di scommettersela su un nastro d’asfalto.
C’è poi quel vecchio discorso, appreso sui libri del liceo, echeggiato da una canzone in cui un pazzo confuse la pista con la ferrovia, secondo il quale gli eroi sono giovani, e belli. Non resta che scegliere una musica adatta, come sottofondo. A quella avrebbe provveduto da solo, Francois Cevert, che appena poteva si accomodava al pianoforte, sfiorando i tasti attraverso i quali sapeva dialogare con Mozart, con Chopin: gli idoli di quell’altra vita e di quella passione coltivata sui banchi del conservatorio. Molto più energicamente, ma con la stessa sincronia, pigiava i pedali delle sue monoposto; solo che in quel caso i suoi idoli se li sarebbe presto ritrovati di fianco, o davanti; sempre più spesso dietro, col trascorrere dei giri. Perché Niki Lauda non è Mozart, Ronnie Peterson non è certo Chopin. Altra musica, di quella che fa partire i timpani, se non li proteggi con i tappi di cera. Chissà se avrà mai riflettuto che a diffondere le note di uno spartito e il frastuono di un’auto da corsa è sempre il medesimo vento, fatto apposta perché qualcuno gli corra dietro, nella speranza di raggiungerlo.
Si ritrova in Formula Uno nel momento stesso in cui inizia a pensare di esserne all’altezza, Francois Cevert, perché quel genio di Ken Tyrrell si fida del giudizio di Jackie Stewart, il suo campionissimo, e perché il destino a volte è una melodia perfetta alla sua prima esecuzione. Nel maggio del 1970 la Tyrrell si ritrova improvvisamente senza il suo secondo pilota, Johnny Servoz-Gavin, che si ritira dopo il Gran Premio di Monaco. È così che arriva il giorno del suo debutto, nel Gran Premio di Zandvoort, in Olanda, su una Tyrrell che è una sinfonia di telai March e motori Ford.
Le monoposto di Formula Uno dei primi anni settanta sono come donne bellissime dalle curve pronunciate, meno sofisticate di quelle attuali, più sensuali, con un agguato di ribellione sempre latente, che viene fuori proprio quando uno pensa di averle domate.
Sono un po’ come le attrici di quegli anni, molte delle quali di Cevert si invaghiscono, perché non potrebbe essere altrimenti; sembra che nemmeno Brigitte Bardot riesca a resistergli e anche se non fosse vero, sarebbe comunque bello, e naturale, pensare a un loro flirt.
È indimenticabile come una dea del grande schermo, la Formula Uno di quegli anni, con Stewart e Fittipaldi che si passano il testimone di Campione del mondo e i loro scudieri, Cevert e Peterson, che si contendono la terza piazza delle rassegne iridate. Lauda è un astro nascente e prima che l’austriaco riporti il titolo alla Ferrari, il mondiale sembra essere un affare privato tra scuderie inglesi: da una parte il blu scuro della Tyrrell guidata dallo scozzese, dai grandi numeri bianchi; dall’altra il nero trapuntato d’oro della Lotus del brasiliano.
Stewart è il padre putativo di Cevert, che impiega poco tempo a diventare suo fraterno amico: una di quelle storie che impreziosiscono ogni sport ma che sono un po’ più speciali nel mondo di quelli che sono abituati ad abbassare una visiera sulla propria solitudine, ogni volta che il motore prende vita.
Si corre sempre a ottobre, a Watkins Glen, nello Stato di New York; quando il mondiale del 1971 fa tappa lì ha già il nuovo padrone: Jackie Stewart è matematicamente campione per la seconda volta e a un certo punto agevola il sorpasso di Francois, che si prende la testa della corsa e sussurra alle sue Good Year di resistere fino alla fine, tra quei muretti e quei tornanti così traditori. Al “Glen”, la sua prima bandiera a scacchi. Consacrazione, nel momento in cui la riconoscibilità del talento ha già superato il fascino: in questa proporzione sta già la dimostrazione della statura di futuro campione, per Francois Cevert, che appena può sorvola i circuiti del mondiale con il suo Piper.
Si corre sempre a ottobre, a Watkins Glen, dicevamo. Come due anni dopo, nel 1973. Ultima tappa del campionato. Nel frattempo Jackie Stewart si è già ripreso per la terza volta il titolo, matematicamente, strappandolo a Fittipaldi che a sua volta se lo era ripreso nel 1972. Senza dirlo alla moglie – per non farle vivere lo stress dell’attesa delle ultime gare – ha deciso che con il Gran Premio degli Stati Uniti si chiuderà la sua carriera in Formula Uno. Non è solo la fine dell’epoca segnata da uno dei più grandi fuoriclasse: è anche, automaticamente, l’investitura per Francois Cevert come prima guida Tyrrell e pretendente più che degno al mondiale 1974. È il corso naturale delle cose, e dei suoi meriti.
Poi c’è quel discorso del restare in equilibrio sull’orlo del precipizio, e della mano invisibile che sceglie di trattenere quelli come Stewart, come Lauda. O forse è solo che ogni volta che due piloti discutono tra di loro su come affrontare un tornante e quale sia la marcia da innestare per infilare il rettilineo, entrambi debbono mettere in conto che possa trattarsi dell’ultima volta che hanno modo di fare due chiacchiere. Sabato 6 ottobre, giorno buono per le qualifiche, Francois spiega a Jackie come intende uscire dal tornante più tortuoso del tracciato. Jackie gli spiega che la quarta marcia rende la vettura più morbida, più domabile, per poi lanciarla sul rettilineo; Francois pensa che con la terza la macchina sia più nervosa ma che consenta un’accelerazione migliore in uscita. Jackie sa che Francois quasi sempre lo ascolta; del resto è stato il primo pilota di Formula Uno con cui Francois abbia parlato, quando il francese era soltanto bravo e sconosciuto. Jackie è già nell’abitacolo, Francois seduto sulla Tyrrell dell’amico. Basterebbe soltanto quest’immagine per raccontare il loro legame, l’affetto del più anziano, la dedizione del più giovane. Ma anche le differenze, evidenti, tra i due. A vederlo, Francois non potrà mai essere un anziano e composto signore che rifiuta gentilmente una birra ghiacciata. Quelli come lui hanno diritto a non invecchiare; riesce a essere bello persino quando si infila nell’abitacolo e indossa il casco, decorato col tricolore francese. Gli basta guardare da sotto in su, come fanno i piloti quando si rivolgono ai meccanici attorno alla macchina, per far risaltare il blu assoluto del suo sguardo: da musicista, da sognatore. È un’immagine cinematografica, col motore già avviato, ma la visiera non ancora abbassata. Come se volesse trattenersi ancora qualche istante, magari per riflettere meglio sui consigli di Jackie. Poi la Tyrrell numero sei, di un blu più cupo di quello degli occhi del suo pilota francese, si avvia, con la naturalezza della melodia quando il direttore dà il la.
Dodici anni di conservatorio, ma una nota stonata.
Secondo Niki Lauda è un avvallamento all’interno della curva. Secondo altri la caviglia dolorante per l’incidente del gran premio precedente, che lo aveva quasi fatto venire alle mani con Jody Scheckter. Qualcuno pensa a un malore, visto che poco prima di salire sulla Tyrrell Francois aveva dato di stomaco, forse per la nausea degli antidolorifici.
Jackie si limita a pensare che alla fine quel tornante abbia scelto di affrontarlo in terza, senza seguire il suo consiglio, come fanno prima o poi i figli, quando giunge il tempo di affrancarsi dai padri.
Al “Glen”, il suo ultimo giro.
L’immagine successiva è la nota più stonata di tutte.
Lo abbracciano stretto, più stretto ancora di tutte le sue attrici, delle ragazze e delle tifose, le lamiere della vettura capovolta, quasi intrecciate a quelle del guardrail che lo imprigiona. Sembra che il gigantesco pneumatico posteriore gli abbia sfondato il casco.
Che rapporto c’è, davvero, fra i piloti? Sono avversari, certo; alcuni si odiano, altri sono amici. Ma al fondo delle cose sono soprattutto compagni di viaggio: quando uno di loro cade dalla nave, tutti gli altri, almeno per un momento, si chiedono chi possa essere il prossimo.
In un certo senso è giusto che sia Jackie il primo a fermarsi, quando vede l’altra Tyrrell capovolta, il fumo, le lamiere claustrofobiche, il tricolore francese di un casco in frantumi, rovesciato; nessun movimento da indovinare tra l’abitacolo e il suolo. Jackie che aveva invitato Francois al viaggio. Capisce subito che tutto è compiuto perché i soccorsi del circuito si danno da fare per liberare la macchina. Non c’è più nessuno da salvare.
Gli dedica il suo centesimo gran premio, quello che sarebbe stato l’ultimo, quello che Stewart decide di non correre. Si ferma a 99, lascia nell’almanacco tre titoli mondiali; sull’asfalto tanti amici, l’ultimo dei quali speciale come quei figli che non sempre ti stanno a sentire.
È ancora oggi più bello di Delon, Francois Cevert, anche perché lui è riuscito a non invecchiare. Continua a guardare tutti da sotto in su, seduto in macchina, sotto un casco francese, con gli occhi più blu della sua Tyrrell numero sei. Tutto quello che avrebbe vinto deve averlo raccontato al vento, quello che diffonde le note di uno spartito, che scompiglia la chioma ribelle dei piloti quando si sfilano il casco, che accarezza le macchine sui fianchi, che provi a guardarle e invece sono già un puntino lontano.