Francesco Acerbi: storia di una rinascita
Compie oggi 35 anni Francesco Acerbi, colonna difensiva della Lazio, la cui storia, oggi più che mai, ci insegna che nella vita mollare non è mai la soluzione. Ve la raccontiamo.
Il “Re Leone”. Così lo chiamavano i tifosi della Lazio per la regalità e il coraggio con cui dirigeva la difesa. Ed è un soprannome perfetto per Francesco Acerbi, trentacinque anni, 193 cm di altezza per 90 kg di muscoli. Perché il leone, oltre alla forza e alla maestosità, è anche sinonimo di concupiscenza. E Acerbi, “Ace” per gli amici, per alcuni anni è stato anche questo, preda di una sfrenatezza che lo stava trascinando sempre più lontano dai campi da gioco e, soprattutto, sempre più ai bordi della vita.
Alcool – “Ho bevuto di tutto” ha ripetuto in più di un’intervista – allenamenti con poche ore di sonno e serate nei locali con la convinzione che la felicità di giocare in Serie-A abitasse nelle sue frivolezze. Per lui arrivare al Milan nel 2012, a ventiquattro anni, dopo aver scalato le categorie come il miglior Pantani (dalla C2 alla A in quattro stagioni), e debuttare in Champions League indossando quel numero 13 mantello del gran visir dell’anticipo (Alessandro Nesta) fino a poche settimane prima, era indifferente. E ritornare già dopo sei mesi al Chievo a lottare per la salvezza, per poi spostarsi a Sassuolo, una neopromossa dalla serie-B, non cambiava assolutamente nulla.
Almeno fino al luglio 2013. Visite mediche prima del ritiro. C’è qualcosa che non torna. E il responso è disarmante: tumore al testicolo. Operazione d’urgenza al “San Raffaele” di Milano, poi il recupero e il 15 settembre è di nuovo a disposizione. Tutto sembra procedere per il meglio. Ma non c’è tempo di gustarsi l’alba che calano di nuovo le tenebre. Cagliari, 1° dicembre, Acerbi risulta positivo alla gonadotropina corionica. Si parla di doping, ma due settimane più tardi un comunicato ufficiale del Sassuolo fuga i sospetti e denuda la triste realtà: c’è una recidiva, il male è ritornato a bussare e con ancor più forza, serve la terapia. Ma soprattutto servono gli artigli per affrontarla.
Il 9 gennaio 2014 il Tribunale Nazionale dell’Antidoping accoglie il ricorso contro la sua sospensione per la positività, ma è il minimo. Ciò che conta è vedere se la “bestia” sarà sconfitta una volta per tutte. Il 7 aprile, in Campidoglio, a poche ore dalla conclusione del ciclo di cure, riceve il premio “Angeli dello Sport” e al “Corriere della Sera” dichiara: “Non sono più il ragazzino che ero prima della malattia”. Non sono parole di circostanza. Perché in quei mesi, oltre a combattere, ha riflettuto. E nell’estate del mondiale brasiliano, prima del via della nuova stagione, la valenza positiva del leone prende definitivamente il sopravvento nella sua mente. Acerbi si rende conto che ciò che gli interessa del calcio sono i compagni, gli avversari, le partite, dimostrare di essere il più bravo, giorno dopo giorno, senza mai accontentarsi.
Se fosse un personaggio di “Twin Peaks”, è in quelle settimane che abbandona definitivamente la loggia nera per quella bianca. Campo e casa, casa e campo. Due parole, due assiomi. Gli alfa e omega di una nuova vita. Da professionista e da atleta che smette di buttarsi via dietro a una felicità di cartapesta. Basta mondanità esagerate e finte amicizie. Acerbi si riappropria di sé. Al “Corriere della Sera” il 30 luglio 2014 dice: “Non mi sentivo così da anni”. La rinascita è iniziata. “La malattia mi ha riabituato a pensare in grande, a inseguire certi obiettivi”. Ovvero: arrivare in una grande squadra, la Nazionale, giocare fino a 38 anni, poi allenare. Ne ha centrati la metà, gli altri aspettano il loro tempo.
Dal 23 agosto 2015 al 20 maggio 2018 salta soltanto due giornate di campionato. Per infortunio. Escludendo questo torneo, negli ultimi tre è rimasto ai box solo contro la Juve, il 27 gennaio 2019, per squalifica. Nell’epoca del calcio turbomuscolare, un’impresa. Ritorna anche l’azzurro, festeggiato col primo gol contro la Bosnia nel novembre 2019. Il merito di questo raccolto? Esclusivamente suo. Del suo impegno, della sua volontà, della sua serietà.
Se per anni ha guidato la difesa della Lazio e oggi quella dell’Inter, è perché ha imparato a guidare se stesso. L’ha fatto nel momento peggiore, quello della malattia. Che se è prova di vita, è anche occasione di cambiamento. E la sua storia è un prezioso assist per capire quanto non sia mai troppo tardi per armonizzare le contraddizioni dei nostri piccoli universi personali o per scegliere che cosa vorremo essere quando avremo ritrovato la nostra intima normalità.