Si è corsa questa mattina, alle 9 ora italiana, l’ultima edizione del Gran Premio della Malesia, presente nel calendario di F1 dal 1999. Gli organizzatori e il governo locale hanno deciso di non rinnovare l’oneroso accordo con “Liberty Media”, la società proprietaria del Circus dopo Ecclestone, a fronte della scarsa partecipazione di pubblico (45.000 presenze su 120.000 nel 2016) e dei costi dell’evento: 67 milioni di dollari, secondo quanto dichiarato dal Ministro del Turismo e della Cultura malese.
Numeri di una certa rilevanza, una consuetudine però per la F1 (nel 2015 Monza fu confermata per 25 milioni di euro) e che rendono l’idea del turbine di denaro generato dall’alta velocità a quattro ruote sia in termini di spesa che di ricavo. Questi ultimi, un richiamo irresistibile, tipo canto delle sirene di Ulisse, per i Paesi di tutto il globo tanto che ben quaranta località avrebbero presentato domanda per ospitare un gran premio.
Una cifra che, se analizzata in ottica esclusivamente sportiva, avrebbe due spiegazioni: il Paese interessato ha un pilota di primo piano nel mondiale oppure la contesa per il titolo è sempre tanto combattuta che vale la pena ospitarne una puntata. Esclusa la prima ipotesi – Spagna, Inghilterra, Germania e Australia (le nazioni dei principali attori del volante) già hanno, o riavranno col rientro di Hockenheim, una corsa – decade anche l’eventualità di una F1 straordinariamente intrigante. Perché limitandosi all’era power-unit (2014-2017) ed esulando dall’attuale duello Hamilton-Vettel, nelle altre stagioni, su 59 gare, 51 successi Mercedes. Un monopolio divertente giusto sull’asse Stoccarda-Brackley.
Da ciò si deduce quindi una F1 palcoscenico ancora appetito soprattutto per il guadagno economico che può assicurare. Sennò, come nel caso della Malesia, che paga anche la concorrenza con la vicina Singapore, nonostante il sostegno di colossi come la Petronas (anche sponsor Mercedes) meglio lasciar stare e passare la mano. Tra l’altro, il Circus non ha particolari problemi a spostarsi in un’altra sede. Basta ci siano le condizioni finanziarie. Altrimenti niente da fare. Nel 2018 si ritornerà in Francia, assente dal 2008, e nella già citata Germania. Due nazioni patrie dell’automobilismo che però ricompariranno in scena non tanto per un desiderio di ritorno alle origini della F1, quanto perché innanzitutto hanno trovato le risorse per farne parte. “Money, money, money”, dunque. Come diceva la celebre canzone degli ABBA. E che il business sia al potere lo dimostra anche un calendario ricco di appuntamenti (nel 2018 dovrebbero essere ventuno). Più corse comportano una maggior vendita di diritti televisivi. E siccome le scuderie percepiscono una parte dei ricavi intascati dalla F1, più volte si sfideranno in pista, più denari fluiranno nelle loro casse.
Ma sulla lunga distanza, in termini d’interesse del pubblico, quanto può essere vantaggiosa questa strategia? Secondo questi dati, la F1 tra il 2009 e il 2016, cioè da quando è entrata nell’era cosiddetta “post-moderna” (per intenderci, quella dell’azzeramento dei test privati delle scuderie e dell’espansione in Medio ed Estremo Oriente), in Italia si è passati da una media di 5,5 milioni a una di 3,9 milioni spettatori a gara. Ok, nel mezzo c’è stato il passaggio alla pay-tv. Però occorre anche tenere a mente che sei di questi campionati sono stati all’insegna dell’egemonia tecnica – quando Red Bull, quando Mercedes, quando Brawn GP – con la Ferrari vincente in appena sette circostanze. Viene quindi da pensare che, se Maranello non lotti per il vertice, la domenica tanta gente non abbia un così spasmodico desiderio di velocità.
E sempre fatti alla mano, è doverosa anche un’altra constatazione. In queste otto stagioni, a ridestare l’interesse del pubblico italiano (attestatosi su una media di 6,5 milioni a gara), salvando le emozioni e regalando la possibilità di un finale diverso da quello scritto dopo le prime corse, ci ha pensato Fernando Alonso. Che nel 2010 e nel 2012, con una Ferrari non best competitor, sfiorò il titolo mondiale grazie a otto successi che, in molti casi, per la loro connotazione epica, riaffermarono il primato dell’uomo sulla meccanica come non si vede più da decenni. Uno di questi, proprio a Sepang, 25 marzo 2012, partendo dalla quinta fila e dopo un’ora di sospensione causa pioggia. Che a Kuala Lumpur è stata sovente protagonista. Al punto da anticipare la fine della corsa (2009) o mostrare un Michael Schumacher primo al traguardo dopo un fuoripista e un pit-stop superiore al minuto (2001).
Buon mix di carico aerodinamico e velocità, uno dei migliori progetti di Hermann Tilke (l’ingegnere autore di altre piste contemporanee quali Abu Dhabi, Bahrain, Singapore, ecc.), il tracciato nella terra di Sandokan è in età da maturità, diciannovesima edizione, e avrebbe meritato di andare all’università. Ma a quanto pare, in questa F1, gli studi hanno il loro costo. E non sempre sono un investimento vantaggioso.