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Formula 1: fare gioco di squadra non è peccato

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Bottas che, su richiesta radiofonica del box Mercedes, lascia strada a Hamilton nei giri finali del Gran Premio del Bahrain ha riportato d’attualità il tema dei giochi di squadra in Formula-1.

Al centro di forti discussioni nel primo decennio degli anni Duemila, specialmente in Italia e specialmente da una parte di opinione pubblica che lo prendeva a pretesto per andare sempre e comunque contro la Ferrari, l’argomento è poi scivolato nel retrobottega dei dibattiti fino a scomparire del tutto quando la federazione, nel 2010, tolse ai team il divieto di ricorrere agli ordini di scuderia.

Una decisione che indipendentemente dalla sua liceità – sulla quale si può obiettare perché il diritto al dissenso è uno dei principi della convivenza democratica – spinge a chiedersi perché mai i giochi di squadra debbano essere visti come fumo negli occhi. Dopotutto, la Formula-1 è uno sport collettivo, dove l’obiettivo della vittoria del titolo mondiale contempla, oltre al contributo del pilota diretto interessato, anche quello di altri soggetti di una squadra: gli ingegneri, i meccanici, gli uomini al muretto, quelli in fabbrica e, non ultimo, il secondo pilota. E se per caso egli, escluso dai giochi per l’iride, può cedere la propria posizione al compagno di colori, permettendogli di migliorare il primato o di ridurre il distacco dagli avversari, perché mai il team dovrebbe impedirlo?

I proibizionisti controbattono con tre motivi. Il principale è che i giochi di squadra sono contrari all’etica dello sport. Un ragionamento venato d’ipocrisia e che denota una conoscenza superficiale delle dinamiche della Formula-1. Sleale è adoperare la seconda guida per eliminare dalla corsa il rivale della prima, non alternare la posizione dei propri piloti, a risultato ormai blindato, per interessi di classifica. Una scelta invece lungimirante, perché finalizzata al bene della squadra sul lungo periodo attraverso la massima valorizzazione di un’occasione che, se non sfruttata a pieno, potrebbe trasformarsi in un grosso rimpianto. Sia per la classifica, sia per il clima nel team (che comunque si ripercuoterebbe sull’andamento della stagione). Ne sa qualcosa la Ferrari, che nel Gran Premio di San Marino del 1982 non congelò le posizioni (Villeneuve davanti a Pironi), lasciando aperta la battaglia col francese che sopravanzò il canadese all’ultimo giro per una doppietta vuota di gioia e piena di tensioni.

C’è poi chi parla di danno d’immagine. Obiezione da accogliere se i giochi di squadra sono fin troppo razionali e non tengono conto del buonsenso. Sempre la Ferrari nel 2002, a Zeltweg, sesto appuntamento di un mondiale vinto da Schumacher con sei gare d’anticipo, poteva evitare di ordinare a Barrichello che il tedesco doveva transitare per primo sul traguardo, perché il risultato non avrebbe pregiudicato le sorti del campionato, data la manifesta superiorità di Maranello (17 gran premi, 15 vittorie). Ma nel 1999, a Hockenheim, con la McLaren di Hakkinen fuorigioco, logico dire a Salo di lasciare strada a un Irvine improvvisamente in lotta per la corona. Anzi, in certi casi, proprio la rinuncia al gioco di squadra sarebbe un boomerang in termini d’immagine, perché trasmetterebbe il messaggio di una scuderia priva di quelle virtù strategiche fondamentali per raggiungere i grandi traguardi.

Per finire, c’è chi sostiene che gli ordini di scuderia diminuiscano l’interesse del pubblico verso la Formula-1 perché sono una mancanza di rispetto nei confronti di chi assiste, dal vivo o in tv, ai gran premi. Sennonché anche qui i fatti raccontano altro. Per esempio, di un Gilles Villeneuve che nel 1979, pur essendo più veloce del compagno di vettura Jody Scheckter, lo scortò fino alla bandiera a scacchi, rinunciando al successo in una Monza dove non avrebbe mai più avuto occasione per esultare, pur di consentirgli la conquista dell’unico titolo della carriera.  A fine gara, sotto il podio, a festeggiare quel mondiale e quella giornata memorabile, un mare di gente e una marea di bandiere rosse.

Immagini più che sufficienti a spiegare che a fare la differenza, affinché un evento sportivo come un gran premio di F1 generi felicità e armonia, non occorre tanto un particolare provvedimento legislativo o una gamma di principi da vademecum del buon bigotto, quanto la sensibilità degli uomini nell’interpretare momenti e situazioni nel miglior modo possibile.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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