Una riflessione che è una richiesta. E, se si vuole, anche un’esigenza. Stop alla Formula-1 su circuiti come Baku. Perché la trasformano in una lotteria dove il risultato finale è determinato da episodi imponderabili, che hanno ben poco in comune con i valori di piloti e monoposto. Beninteso: l’imprevisto, nelle corse come in ogni altra disciplina (e come nel quotidiano di ognuno di noi), può sempre capitare. Ma un conto è se, a incidere pesantemente o a determinare l’esito di un gran premio, è la rottura del motore del leader a pochi giri dal termine (tipo Massa in Ungheria nel 2008), un tamponamento del pilota al comando con un doppiato (vedi Senna-Schlesser a Monza nel 1988) o la pioggia su un tracciato già insidioso di suo (Montecarlo edizione 1996, solo in quattro al traguardo). Ben altro discorso, invece, se la trama di una gara è scritta da fattori che esulano dall’aspetto tecnico. Com’è successo in Azerbaijan, dove a stendere il copione dell’ottava prova del campionato sono state le tre entrate della safety-car e la bandiera rossa (per la cronaca, caldeggiata da Alonso alla direzione di corsa), intervenute durante i cinquantuno giri per rimuovere una vettura a lungo ferma sull’asfalto (la Toro Rosso di Kvyat) o i detriti lasciati soprattutto dalle monoposto di Raikkonen, Perez e Ocon.
D’accordo: al primo posto, l’incolumità dei piloti. E, infatti, alla luce di quel che è accaduto, più che doverosa la ripetuta presenza della vettura di sicurezza. Il problema, semmai, è alla radice ovvero la scelta di gareggiare su tracciati di questo tipo, incroci artificiali tra una pista da competizione (Baku ha il rettilineo più lungo del mondiale, 2,2 km, dove si transita senza difficoltà a 330 km/h) e una cittadina (nel tratto della città vecchia si transitava intorno ai 90 km/h) in località scelte più per ragioni economiche che per effettiva tradizione automobilistica (altro esempio in tal senso è Sochi), dove il minimo contatto fra due macchine, o il più piccolo intoppo meccanico, comportano l’inevitabile neutralizzazione, se non addirittura, sospensione della corsa. Col risultato che, complice il regolamento della federazione che impone l’utilizzo di almeno due mescole di gomma differenti e quindi di fermarsi almeno una volta ai box, si è assistito a una maratona (oltre due ore sono intercorse tra il via e la bandiera a scacchi) composta però da tante brevi manche che hanno fatto assomigliare l’evento più a una sfida dei kart o delle categorie minori che a un gran premio di Formula-1.
Per carità, chiunque fosse davanti alla tv non può certo dire che domenica abbiano vinto gli sbadigli o che siano mancati i colpi di scena. Però, più che la forma, bisognerebbe guardare la sostanza. Che racconta come emozioni e ribaltamento dei valori – prima vittoria della Red Bull in stagione, primo podio in carriera per Stroll, prima volta nel 2017 di Vettel e Hamilton fuori dai primi tre – siano arrivati a causa di una pista eccessivamente penalizzante nei confronti di un guasto o di un contatto fra due piloti durante un sorpasso. Perché su un circuito vero e proprio (tipo Imola, Hockenheim, ecc.), dotato di vie di fuga in erba o in sabbia e di un’efficienza organizzativa più brillante rispetto a quella azera (se a Montecarlo, per portar via ogni macchina ferma lungo il percorso, impiegassero il tempo occorso per quella di Kvyat, quanto durerebbe il gran premio?), inconvenienti come l’elettronica in tilt del russo e manovre come quelle fra Bottas e Raikkonen, o fra i due della Force India, si sarebbero ripercosse solo sui diretti interessati e non avrebbero condizionato l’esito della gara. Che invece avrebbe premiato chi sarebbe stato più regolare e più performante sulla distanza. Che poi non è altro che il principio regolatore alla base di ogni competizione automobilistica.