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Ferrari: le avversità si superano marciando

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Due campionati del mondo persi consecutivamente all’ultima gara quando al volante c’era Schumacher, che prima tamponava maldestramente Jacques Villeneuve (Jerez 1997) e poi rimaneva fermo al via lasciando il trionfo ad Hakkinen (Suzuka 1998). Meccanici affannati a cercare una gomma latitante durante il pit-stop di un’altra “Rossa” in piena lotta per il titolo (Irvine, Nurburgring 1999). Un altro iride gettato dalla finestra (o forse sarebbe meglio dire, “dal muretto”) per una strategia di gara “kamikaze” (Alonso, Abu Dhabi 2010) Le lacrime di Alesi per un cuscinetto in fiamme che bruciò la vittoria tanto attesa (Monza 1995). Il fumo di un motore rotto che, a tre giri dalla fine, dissolve un successo inseguito e meritato (Massa, Ungheria, 2008).

Con ogni probabilità, chi è ferrarista con una memoria almeno venticinquennale ha vissuto delusioni d’intensità superiore a quella provata per l’incidente al via del Gran Premio di Singapore che ha eliminato Vettel e Raikkonen. Un fatto che ben si spiega con le parole dette da Luca Baldisseri, allora responsabile delle operazioni in pista del Cavallino Rampante, pochi istanti dopo la biella che quel giorno a Budapest tradì Felipe: «Queste sono le corse». Una frase laconica, forse impietosa e, volendo, anche dal retrogusto fatale nella forma. Ma essenziale, semplice e veritiera nel contenuto.

Che piaccia o meno, le gare di F1 sono fatte anche di storie come il botto allo start di Marina Bay. Se è abbastanza scontato affermare che sarebbe meglio non capitassero, occorre far notare che non dovrebbero nemmeno stupire. Perché successero anche a Schumacher, spedito fuori due volte consecutivamente alla prima curva (Austria e Germania) nell’anno del primo mondiale (2000), e ad Alonso (Belgio e Giappone 2012). E non va dimenticato che pure Mercedes (Spagna 2016, aggancio tra Rosberg ed Hamilton alla quarta curva), McLaren (sgambetto di Coulthard ad Hakkinen, Zeltweg 1999) e Red Bull (Turchia 2010, incontro ravvicinato del terzo tipo fra Vettel e Webber) hanno le loro belle carambole nell’armadio.

Semmai sarebbe più interessante capire perché quest’anno, su quattro incidenti alla partenza che hanno messo fuorigioco almeno uno dei piloti coinvolti (Spagna, Austria, Ungheria, Singapore), Verstappen sia sempre stato presente. O perché Maranello, se ci si sofferma un attimo sullo scatto non impeccabile di Vettel, palesi ancora qualche difficoltà (da noi già annotate) allo spegnersi dei semafori.

Ma, per il resto, la collisione che ha aperto un’autostrada al successo di Hamilton è stata un episodio di gara e, come tale, dev’essere vissuta e accettata. Se vuole ancora ambire alla vittoria del titolo mondiale, la Ferrari dovrà ora superarne le conseguenze, riflesse unicamente sullo stato d’animo di tutta la scuderia, gettandosela alle spalle e guardando esclusivamente al prossimo appuntamento, in programma fra due settimane in Malesia. Mettersi a recriminare sulla grande occasione sfumata, perché si correva su un circuito favorevole dove erano alte le possibilità di vittoria dopo la pole di sabato, lamentarsi con frasi tipo “Vorrà dire che a fine anno noi avremo corso una gara in meno della concorrenza” oppure fare le vittime, piangendo miseria perché gli sforzi compiuti vengono vanificati dalla sfortuna e dal destino cinico e baro, equivarrebbe a compiere il primo passo per archiviare ogni speranza di rimonta e consegnare definitivamente il titolo alla Mercedes e a Lewis Hamilton.

Al contrario, pensare esclusivamente alle soluzioni da portare in pista a Sepang, immaginando il riscatto e convertendo in energia positiva il senso di frustrazione e di rabbia accusati dopo la prima curva di Marina Bay, significherà aver intrapreso la giusta strada per una reazione da squadra che, aldilà di quello che emergerà dalle ultime sei piste della stagione, possiede comunque i requisiti morali richiesti a una legittima pretendente a un obiettivo di prestigio come il campionato del mondo di F1.

Le avversità si superano marciando e a Maranello, ora più che mai, non è tempo di mettersi a sedere.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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